Domani

Domani

“Dove dobbiamo girare per arrivare a casa tua?
”Livia alza la voce per coprire il volume della radio e urla “A sinistra, laggiù, vedi? Dov’è il semaforo!”
Laura accelera, fa un giro mozzafiato con la macchina intorno alla rotonda, poi un altro, poi un altro ancora, sembra di essere capitati nella centrifuga di un’enorme lavatrice. Tutte ridono, tutte un po’ sbronze, e anche Livia ride. Qualcuna – forse Chiara, chi lo sa – propone di iscriversi tutte insieme in palestra dopo le vacanze. Tutte rispondono di sì, tutte sanno che non potranno mai farcela, ma in quel momento tutto suona convincente.

È tutto meraviglioso, tutto. Tutte insieme, tutte schiacciate in quel macinino che a rigor di logica nemmeno avrebbe l’autorizzazione di girare per le strade, ma chissenefrega, tanto va tutto bene e sono tutte amiche e ridono tutte ed è tutto bellissimo.
“Ferma, ferma è qui!”, ma Laura è già andata oltre e ora fa un’inversione a U e tutte ridono perché è andata bene e non è passata nessuna macchina. Sane e salve.

“Ci vediamo settimana prossima vero?” chiede Giulia. Livia si arrampica tenendosi al tettuccio per uscire dal minuscolo abitacolo della macchina. 
“No, settimana prossima sono a casa.” 
“Giusto… ok, allora tra due settimane, bella. Fai la brava a casa, mi raccomando!”.

E Livia ride di nuovo con malizia, ridono tutte, tutte le schioccano dei baci sonori sulle guance e Marta la stringe forte a sé e si salutano così prima di partire sgommando. Laura le accompagnerà tutte a casa, o almeno così spera Livia, perché con tutto quell’alcol in corpo sarà difficile che arrivino tutte a destinazione senza un graffio.

Cerca nervosamente le chiavi nella borsetta mentre il tizio che compra le sigarette dal distributore la scruta torvo. Neanche lui sembra essere del tutto in sé, e la cosa la inquieta, tanto più che quel benedetto mazzo di chiavi non salta fuori. No, eccolo, meno male, è proprio qui e ora cerca di centrare subito la toppa, ma la strada è completamente buia e l’uomo ha iniziato a fissare insistentemente la sua gonna. E poi finalmente la serratura scatta, e Livia entra nell’androne chiudendosi di tutta fretta il portone alle spalle. È al sicuro adesso.

Pigia il pulsante per chiamare l’ascensore, i tacchi la torturano e non può salire quattro piani di scale a piedi nudi. Le porte automatiche si aprono e lei entra. Allo specchio nota quanto l’eye-liner sia sbavato, della matita nera non è rimasto nulla se non una traccia sbiadita sotto il contorno dell’occhio sinistro. Dio, meno male che non ha notato nulla del genere mentre era in giro, altrimenti non sarebbe stata capace di parlare con nessuno sapendosi in quelle condizioni. Sotto al top attillato si intravede la pancetta alcolica, anche quella l’ha notata solo ora. Da domani dieta, no stavolta davvero.

Entra a casa in punta di piedi per non svegliare i coinquilini, si accascia sul letto, sfinita. Seduta sul bordo del letto sfila pian piano le scarpe: ormai i piedi hanno preso una forma strana, sembra che indossino ancora i tacchi. Si massaggia i talloni doloranti e getta uno sguardo verso la poltrona piena di vestiti spiegazzati. Domani dovrà mettere in ordine, porca miseria.

Sfila il vestito dalla testa mentre la prima lacrima della nottata fa capolino nell’angolo dell’occhio. Brucia terribilmente e lei la lascia cadere, tanto chi mai la vede?

Indossa il pigiama e va in bagno. Toglie le lenti, si strucca, mette gli occhiali da vista e raccoglie i lunghi capelli in uno chignon stretto in cima alla testa. Fissa il suo doppione allo specchio, che ha un viso gonfio e un’espressione malinconica. Faccione da bambina golosa di patatine. Che orrore. Lava i denti e butta i collant sporchi nel cesto della biancheria, tracimante di roba che chiede a gran voce di essere lavata al più presto, ma chi ne ha voglia? Domani, domani farà tutto.

Il letto non è molto invitante. Una leggera pioggerellina ha iniziato a cadere, senza dare alcun fastidio, piange silenziosamente come lei. E Livia decide che sarà bello piangere insieme alla pioggia, senza nessuno che la giudichi, che le chieda ancora una volta perché sta piangendo. In cucina c’è ancora metà della torta, il thè freddo è in frigo, le sigarette in borsa.

Improvvisa una sorta di vassoio, indossa una felpa pesante ed esce nel freddo della notte torinese.

Le lacrime scendono, lente, poi veloci, calde e salate. Le beve insieme al sorso di thè, la torta è piena di burro e di zuccheri, ma cosa importa, tanto da domani è a dieta.

Perché non riesce a volersi bene? Perché sospetta sempre che gli altri le siano accanto per compassione, che le sue amiche siano meglio di lei, che un giorno si stuferanno tutti di viverle accanto? Perché l’adolescenza non è stata lavata via dalla nuova vita, com’è successo a tutti quelli che conosce? I suoi complessi restano lì, come una macchia di sporco ostinato su un capo delicato, e lei non ce la fa più a sentirsi quel capo delicato.

Accende la sigaretta, inspira e quella sensazione di bruciarsi i polmoni, chissà perché, la consola. Tranquilla, che domani cambia tutto. Che poi lo sa che non sarà mai vero, ma ora sono le tre e mezza di notte e si può benissimo pensare così. Sì, domani non dovrà più fingere una sicurezza e una tranquillità che non le appartengono, perché da domani sarà davvero tranquilla e sicura. Da domani si iscriverà in palestra e al corso di teatro, ripeterà ogni materia ad alta voce, s’informerà concretamente per il viaggio di agosto, da domani sarà tutto più semplice. L’ultima boccata le brucia i polmoni, tossisce cercando invano di calmare gli spasmi con l’ultimo sorso di thè. Una finestra del palazzo di fronte s’illumina.

Un ragazzo apre le imposte, poggia i gomiti e si sporge in avanti per capire da dove provenga quel rumore. Ha i capelli ricci e gli occhi celesti, indossa un paio di occhialetti che da lontano sembrano essere neri, ma non è certa di averlo visto bene, d’altronde da quella distanza può anche aver solo immaginato il colore degli occhi. Torna velocemente dentro casa, chiude la tapparella e si rifugia tra le coperte ad immaginare la sua vita quando tutto sarà migliore.

Certo, però, quel ragazzo era carino davvero, anche al buio. Con quella camicia, poi… lei adora i ragazzi con la camicia. Spera che non l’abbia vista, così struccata e in pigiama, con una felpa di tre taglie più grande. E poi, anche vestita diversamente, non avrebbe alcuna speranza con uno così carino. Chissà da dove è tornato, a quell’ora di notte, così elegante…

 

Il ragazzo si chiama Enrico e ha ventitré anni. Studia Giurisprudenza ma è costretto a lavorare anche come cameriere per mantenersi lontano da casa. Ecco perché ogni notte torna tardi nel suo appartamento, e non è la prima volta che ha visto quella ragazza sul balcone. Gli sembra quasi che esca solo per piangere, ma magari è solo la sua immaginazione, cosa ne può sapere se riesce a vedere bene da quella distanza? Che sia bassina, però, è un dato di fatto. E ha i capelli lunghi, sempre legati in uno chignon stretto stretto. Chissà se l’ha mai notato, e chissà cos’ha pensato a vederlo sempre in ghingheri, con la camicia bianca e l’occhialetto figo.
Deve assolutamente trovare il modo di conoscerla e di capire perché pianga sempre. Magari potrebbe aiutarla, o condividere con lei le sue ansie di ogni giorno. I genitori lontani, l’esame di Commerciale e il lavoro, e la ragazza che adorava che l’ha appena lasciato.
Domani riuscirà a parlarle. Sì, domani ci riuscirà.

A te che sei il mio paparino ed il mio rinopapa

A te che sei il mio paparino ed il mio rinopapa

Mio padre ha un viso di una dolcezza unica. Ha dei tratti delicati, perché nulla in lui è scortese, perfino il naso è piccolo, le labbra sottili, gli occhi espressivi. E, giusto per non dare troppo nell’occhio, i capelli hanno deciso di abbandonarlo già parecchi anni fa (per dire, guardando una foto del loro viaggio di nozze un mio vecchio… amico disse che papà somigliava a Gigi D’Alessio, poveraccio).

Papà non è alto ma non è nemmeno un nanetto. E’ solo piccolo, così è più facile volergli bene.
Ha i polsi e le caviglie sottili e non ingrassa mai, e questo fa infuriare le sue tre donne, che da anni lo osservano fare “la scarpetta” e sfoggiare delle gambe da stambecco. 
E’ sempre vestito bene, un po’ perché ha un’eleganza innata, un po’ perché la mamma fa shopping per lui. 

Io sono l’unica in grado di farlo arrabbiare, perché sono una testa dura e un’indisponente, altrimenti arrabbiarsi non rientra nelle sue capacità, sarà per questo che anche gli altri trovano difficile avercela con lui, e Niko lo adora. Mi ricordo ancora di quella volta in cui papà aveva parcheggiato male la macchina, e quando un signore chiese con estrema grazia “chi fosse il coglione che aveva parcheggiato così”, rischiò il linciaggio: Niko subito si alterò e gli gridò contro “non ti permettere, quella è machina di ingeNIEre, è una brava persona!”.

Come ogni bambina, anch’io da piccola volevo sposarlo. Questo sarebbe ancora normale se a volte non fossi tentata di sposarlo ancora oggi. Perché gli uomini come lui sono rari, e me lo dicono veramente tutti. Me lo dice la mamma, me lo dicono le nonne, me lo dicono le amiche, me lo dice chiunque lo conosca.
A volte dicono “è un uomo d’altri tempi”, ma io non sono d’accordo. Perché gli uomini d’altri tempi saranno anche stati dei cavalieri, ma non lavavano i piatti quando la moglie era stanca, non lavoravano in giro per casa, non portavano ogni mattina il caffè a letto a moglie e figlie, e certamente si ritenevano i capo-famiglia. Ma papà non è il capo-famiglia, perché a casa mia un capo-famiglia non c’è, siamo tutti pirla allo stesso modo.

Papà mi ha insegnato a guidare la bicicletta e la macchina (anche se ancora la patente non l’ho presa), e si è stupito quando non ho fatto spegnere l’auto il primo giorno in cui ha iniziato a darmi lezioni. E poi ha afferrato in un nanosecondo il volante quando alla mia prima retromarcia ho rischiato di uscire dalla strada e finire tra le cicorie. E quando ci ha tratti in salvo, rideva. Io invece, ça va sans dire, avevo già pianto tutte le mie lacrime. 
Perché papà è così: lui non si scompone, ride. Ride quando succede un imprevisto, ride quando io e lui prendiamo in giro mia sorella, ride quando lavora con i suoi colleghi e ride quando la mamma si stizzisce se lui le dà risposte sceme. 

Ogni tanto litighiamo ma fare pace è semplice: basta una battuta delle nostre, un gioco di parole, un’allusione e tutto torna com’era. Poi a volte parliamo seriamente con una tranquillità che mi appartiene solo quando sono con lui, mi racconta che la pigrizia l’ho ereditata da lui, come anche la disorganizzazione e il disordine, e poi mi consola perché se lui ce l’ha fatta a vincere i suoi difetti lo posso fare anch’io.

Non è un padre di quelli che vantano sempre la bellezza delle proprie figlie, ma le rare volte in cui lo fa ha la commozione negli occhi, glielo si può leggere chiaramente che ciò che dice lo pensa davvero. Solo che non sempre riesce a esprimerlo a parole, e allora vedi che il suo cuore, pur così grande, è diventato improvvisamente troppo stretto per contenere tutto ciò che prova: ha bisogno di esternare qualcosa, ma le sue parole non sono mai troppe, compensa il sorriso.

Perfino con i figli degli altri è un bravo papà: se non mi credete guardate le foto che gli hanno scattato in barca mentre gioca con i figlioletti dei suoi soci (età media: 5 anni), che gli si arrampicano addosso come tante scimmiette e ridono di ogni sua smorfia. E mi ricordo ancora di quando gli si fermò la macchina a metà del tragitto tra Roma e Lecce, in viaggio con lui c’erano due ragazzi che forse non avevano ancora vent’anni. 
Lui avvertì la mamma, aspetto con serenità il carro attrezzi e poi tornò più stanco che mai mentre noi eravamo lì in agitazione. Lo accogliemmo con un cartello “Bentornato angelo!”, e lui rispose semplicemente “Io mi chiamo Guglielmo, mica Angelo!”. 

E invece lui è il Mio angelo. 

Questo non è un post per la festa del papà, quanto piuttosto la “conseguenza” della festa del papà. Per ricordarlo, anche se a distanza, guardavo una nostra foto nel giardino di casa, e ancora una volta mi ha colpito il suo viso.
Te lo dico meno di quanto vorrei, ma tanto tu sai che è la pura verità: ti voglio un bene infinito Testa di Boccia.

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What will I be?

What will I be?

A volte rileggo il mio nick (gocciadisplendore) e cerco di immaginare le reazioni degli altri blogger quando leggono un post scritto da una con un nome tanto pretenzioso. A proposito, ultimamente le iscrizioni stanno pian piano aumentando, quindi volevo dare il benvenuto a chi da poco è entrato nella mia cerchia!

Dicevo. Gocciadisplendore. Che nome impegnativo eh? Sembra quasi la promessa di un qualcosa di bello, di grandioso, come un puntino colorato in un mare di grigio. Per ritenersi tale, ci vuole davvero tanta fiducia in se stessi. 
Io, che tutta ‘sta fiducia non ce l’ho, ho scelto questo nick come un augurio a me stessa. 

Il mio nome affonda le sue radici in una canzone di De André che, come già saprà chi mi segue da un po’, è il mio cantante preferito e per certi versi un maestro di vita. 
Dei suoi ideali mi piace in particolar modo la sua esaltazione degli ultimi e il suo abbracciare le diverse culture e la gente che, per un motivo o per l’altro, è costretta ad andare “in direzione ostinata e contraria”, oppure più semplicemente VUOLE, per una sua spontanea scelta, distinguersi dalla massa. 

Nell’album Anime Salve ogni canzone è dedicata ad un gruppo di persone emarginate dalla società, che per scelta o per forza si sono ritrovate ad andare in direzione ostinata e contraria.
E quindi Princesa parla di Fernandinho, che capisce di non sentirsi uomo e diventa un transessuale. 
Khorakhanè (a forza di essere vento)
, la mia preferita, parla di una tribù di Rom che, a detta di De André, hanno rubato perfino a casa sua, ma mai in giacca e cravatta travestiti da funzionari di banca.
Dolcenera, ambientata nel corso di una terribile alluvione a Genova, racconta di un amore adultero e così via.

E poi c’è Smisurata Preghiera, in chiusura, che non racconta di una storia in particolare ma di tante storie. E’ una preghiera ad un’entità superiore, di cui lo stesso De André dirà che probabilmente non servirà a nulla, ma lui ci vuole provare lo stesso a lanciare il suo messaggio. 
E’ un elogio a tutte le minoranze, a tutti quelli che “tra il vomito dei respinti” muovono gli ultimi passi “per consegnare alla morte una goccia di splendore”.

A modo mio anch’io mi sono sempre sentita un po’ una minoranza, non chiedetemi quale perché non saprei dirlo, e se una vaga idea ce l’ho non ci tengo a farla sapere agli altri. Eppure, anche sentendomi sempre un po’ inadeguata, un po’ al di fuori della maggioranza, forse anche con un atteggiamento che ad altri potrà sembrare arrogante o presuntuoso, ho da sempre la voglia di lottare con le unghie e con i denti per stillare quella goccia di splendore che forse può essere consegnata perfino da una piccoletta come me. 

Ed ecco che ho deciso di impormi questo nome, in un contesto che, spero, sarà quello che mi permetterà di consegnare qualcosa di veramente buono nella mia vita: la scrittura, le idee, un mondo forse un po’ astratto, lontano dalle ferree regole della matematica e della fisica. 
Qualcuno potrà dire che è un qualcosa di inutile e poco pragmatico. Sono d’accordo, ma è il mio modo di esprimermi e donare qualcosa. 

Ecco, questo è il perché. Goccia di splendore non è ciò che sono, ma ciò che sogno di poter creare. E’ l’ombra di un progetto, forse anche troppo ambizioso, ma è ciò che più sento mio.
Come pensava Emma Morley, protagonista femminile del romanzo “Un giorno” di David Nicholls, “non voglio cambiare il mondo, ma fare qualcosa per il piccolo pezzetto di mondo intorno a me”.

 

Il Papa, le foto e le sopracciglia

Il Papa, le foto e le sopracciglia

Non aggiorno il blogghi dall’8 marzo, e dal momento che proprio non ci so stare senza rompere le palle alla gente, oggi, dopo sei lunghi giorni di assenza, torno per la gioia dei miei contatti Facebook, che vedranno spuntare nuovamente il mio prodotto sulla Home come una perfida gramigna. 

Non che in sei giorni non abbia scritto, ci mancherebbe. E’ solo che le pagine che ho riempito in questi giorni erano troppo infarcite di zozzerie… ehm… di paturnie personali, e ho preferito non ammorbare anche il web con i miei pensieri sconci… ehm… con i miei profondi e wertheriani dolori. 

Avevo vari spunti a cui attingere per questo nuovo post, ma nessuno di questi mi sembrava abbastanza corposo per costruire un articolone, e quindi ho deciso di spremermi un po’ e pensare a cosa sia successo di significativo in questi giorni, e mi è venuto in mente:
1. Che sabato ho passato la serata a spettegolare con un’amica e ieri è venuta un’altra amica a trovarmi (ecchissenefrega? appunto.)
2. Che ho perso all’incirca due chili negli ultimi quattro giorni (complimentoni a me, ma alla gente non gliene può fregare di meno)
3. Che ho visitato il blog della mia migliore amica e le sue foto mi hanno commossa (e già questo inizia ad essere vagamente interessante)
4. Che fuma che ti rifuma, è stato finalmente eletto il nuovo Papa (e questo mi sa che interessa già a un po’ di gente)
5. Che oggi con un’amica siamo scappate dalla lezione di Glottologia e siamo andate a strapparci le sopracciglia dall’estetista (e anche se non ve ne frega nulla io ne parlo, perché mi sono innamorata delle mie nuove sopracciglia).

Dunque, notizia Numero 1: che quell’albanese della mia migliore amica Reisa (come si potrà notare dal nome è albanese davvero) fosse una sorta di artista della fotografia già si sapeva. E non lo dico io perché ogni scarrafone è bello a mamma sua, ma lo dicono un po’ tutti quelli che hanno l’occasione di ammirare i suoi… ma chiamiamoli quadretti, perché per me sono dei quadri al pari di quelli di un pittore. 
Certo, parlo da profana, da incompetente e anche da disastro-ogni-qualvolta-che-ho-una-fotocamera-tra-le-mani, quindi probabilmente il mio giudizio conterà meno di zero, ma quando l’altro giorno mi sono soffermata su alcune di quelle foto, giuro, qualcosa mi si è sciolto dentro.
Osservavo degli scorci che conosco benissimo attraverso l’obiettivo della mia amica, e pur sapendo benissimo che guardavo delle immagini che mi erano già note, non ho potuto fare a meno di rimanere incantata dal suo punto di vista. Per dire, questa è Piazza Sant’Oronzo, a Lecce, e lo vedo benissimo cos’è, ma a me così sembra più bella del solito

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E’ come se lei fosse riuscita a catturare qualcosa che io non sarei mai stata capace di cogliere. Come se avesse tradotto in immagine delle sensazioni che io sento a livello emozionale, che forse un po’ saprei esprimere a parole, ma se poi mi mettessero in mano la miglior macchina fotografica del mondo… bè, la stessa piazza sembrerebbe un comune spiazzo con dei lampioni e due o tre cristianucci di passaggio.
Odio le frasi fatte, ma in questo caso non saprei trovare una descrizione migliore de “la bellezza sta nell’occhio di chi guarda”.
E’ un po’ il caso di quegli innamorati che trovano bellissima la loro mostruosa donna gobba e dai denti storti: se vuoi capire perché siano così convinti della sua bellezza non puoi far altro che cavarti gli occhi e indossare per un attimo i loro. E così anche per una fotografia.

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Notizia numero 2: a ‘sto giro vince l’Argentina. E come ha già detto il Papa stesso, sono andati a ripescarlo alla fine del mondo.
Mi ha fatto una tenerezza infinita vederlo lì, mi è sembrato molto umile e dolce, molto aperto, uno sguardo quasi da Wojtyla, se mi è concesso il paragone.
Certo poi anche là è questione di punti di vista: prendi mia sorella. Quando è salita la fumata bianca io facevo la spesa ed ero al telefono con lei che mi aggiornava in tempo reale (il discorso l’ho poi rivisto su YouTube). Mi ha comunicato subito “Il nuovo Papa è argentino!”, e la mia prima domanda è stata “Oooh, ma è mulatto?”.
La (delicatissima) risposta di Benedetta è stata “No, è bianco come se stesse per morire”. Quando si dice la poesia.
Comunque non è solo mia sorella ad esprimere un diverso parere su questo Papa, e almeno il suo è solo estetico. Sto poveraccio non è Papa manco da dodici ore e già il web si è dato da fare per far venire a galla tutte le (per ora solo presunte) nefandezze che avrebbe compiuto nel suo passato. Secondo le notizie che ho letto in giro per ora, la maggior accusa che gli è stata mossa è quella di collusione con la dittatura Argentina, ma addirittura c’è stato chi ha scritto un articolo sulle sue possibili origini piemontesi (e vorrei capire se la gente considera una colpa provenire dal Piemonte). 
Insomma, manco ha fatto in tempo ad intonare il colore del vestito con quello della fumata che già era stato imputato di essere l’origine di ogni male esistente nell’Universo, dalla fame nel Terzo Mondo agli elastici per capelli che si spezzano non appena fai un giro di troppo. 
Ora, io ne so quanto tutti gli altri, proprio per questo mi limito a parlare di impressioni: mi SEMBRA buono, mi SEMBRA dolce, mi SEMBRA umile. D’altronde, l’ho visto solo per dieci minuti scarsi. Dal momento che mi risulta che anche gli altri l’abbiano visto per così poco tempo, non mi capacito di come in Italia si debba sempre parlare per “sentito dire” e ci sia quest’abitudine di diffamare chiunque occupi un posto di rilievo, che sia in politica, in Vaticano, nello sport o nei concorsi di bellezza. 
Non sto parlando da cattolica ma da persona, e la mia domanda è una sola: possiamo aspettare – non dico tanto – una settimana di papato prima di sparare a zero? Questo pressapochismo mi fa davvero torcere le budella.

Notizia numero 3, da Papa Francesco alle sopracciglia di Elisa. E qui il mio lato femminile ogni tanto torna a galla, quindi non mi sento di sopprimerlo poveraccio. 
Non ho mai avuto delle sopracciglia cespugliose in vita mia, e in questo la Natura mi è stata amica, perché altrimenti con la mia propensione a imbruttirmi ogni volta che cerco di rendermi carina al momento avrei due scoiattoli in cima agli occhi. Eppure da un po’ di giorni le guardavo e provavo un immediato fastidio, le sentivo disordinate e sciatte. 
Poi oggi Chiara è arrivata durante la pausa pranzo e ha decretato che “con quelle sopracciglia lei non ci voleva andare in giro”. E lì mi si sono attivate le antenne. In breve, abbiamo deciso di scappare dall’estetista più vicina e renderci presentabili al consorzio umano, e così abbiamo fatto. Il tempo di pagare il conto ed eravamo in Piazza Vittoria a cercare l’estetista. 
Due strappetti di ceretta, tre di pinzetta e una passata di olio per non far arrossare la pelle e ci sentivamo nuove.
Sostanzialmente, come lei non ha fatto a meno di farmi notare, non è che il mio cambiamento sia stato poi così radicale, però non so in che modo quel minuscolo dettaglio mi ha rivoluzionato la giornata. Sulla strada per tornare a casa, in maniera del tutto spontanea, ho abbandonato la mia postura gobba da insicura cronica e ne ho adottata una molto più spavalda. Mi veniva così naturale farlo che quasi non me ne accorgevo. 
Poi ho iniziato a notare qualche sguardo, qua e là per la strada. Sguardi che ultimamente credevo di non ricevere più, addirittura un “gentiluomo” che con una spallata m’ha spinta contro il muro e mi ha detto “sssei bella”. Ed io non ho potuto fare a meno di replicare “UMPF”, perché se proprio vuoi fare un complimento gradito potresti evitare di spingere nel contempo la gente contro i muri.
Poi, però, appena mi sono allontanata di un paio di metri non ho potuto fare a meno di sorridere tra me e me: strano come un dettaglio da niente, un qualcosa che nemmeno consideri importante, possa a volte renderti così di buonumore da far trasparire questa tua allegria anche agli altri.

 

Ui chen du it!

Ui chen du it!

Domando scusa fin dall’inizio per questo post, non ho alcun dubbio che sarà scontato e banale e mi vergogno già da adesso per tutte le ovvietà che ci saranno qua sopra. Volete comunque leggerlo? Mi fate solo felice, ma per favore non dite che non vi ho avvertito.

Anche volendo, sarebbe impossibile non farci caso: oggi è l’8 marzo, la Giornata della Donna, perché è la giornata, mica la festa. E infatti io mi sono già grattugiata abbondantemente l’anima quando mi sono stati messi sotto il muso i volantini delle feste in discoteca con tutti i vari ed eventuali maschioni in perizoma, pieni di olio e steroidi (e al 90% delle probabilità gay, lo dico per le speranzose che vanno in disco per rimorchiare). Ecco, a chi promuove ‘ste feste con gli spogliarellisti torcerei le budella, perché significa svalorizzare ENORMEMENTE il motivo per cui oggi qualche sparuto cavaliere si degnerà di darci uno svogliato augurio buttato là.

Non parlo da femminista, ché se lo fossi qualche anno fa avrei lasciato in tronco un carissimo ex che, piuttosto che mandarmi due parole di SMS con scritto “auguri pirla!” mi mandò quattro pagine di assurdo pippone su quanto per lui “la festa della donna fosse una festività puramente commerciale, ma se proprio ci tenevo gli auguri me li avrebbe fatti lo stesso”. E io me lo sono tenuto. Quindi non sono propriamente una femminuccia isterica, e anzi di femminile, a parte l’intimo e qualche altro dettaglio, ho ben poco.

Poi col tempo ci ho riflettuto, e oggi davanti ad un messaggio del genere mi ribellerei: sì che ci tengo, ma fammeli ‘sti benedetti auguri, che mica perdi la virilità se ti sprechi un attimo!

Ci tengo perché, se è vero che le suffragette ci hanno portato alla parità dei diritti, ancora oggi molto spesso questi diritti li vedo solo sulla carta.
Ci tengo perché finché in Parlamento si parlerà di Quote Rosa significa che siamo ancora una specie protetta, come i Panda del WWF.
Ci tengo perché finché Belen girerà con la farfallina di fuori e sarà pagata per farlo saremo ancora oggetti sessuali.
Ci tengo perché fino a che Silvio Berlusconi potrà chiedere pubblicamente a una donna se lei “viene” senza suscitare scandalo saremo ancora una società sessista.
Ci tengo perché c’è gente a cui ancora fa ridere la battuta che “una chiave che apre tutte le serrature è fantastica, ma una serratura che si fa aprire da tante chiavi non vale nulla”.
Ci tengo perché vivo a contatto con una manica di pirla che si comportano da mestruati come se ne avessero il diritto, ma non sanno minimamente quanto ci devastino gli ormoni in quei giorni lì, e si permettono pure di dirci che siamo “pesanti”.
Ci tengo perché l’augurio di oggi significa anche “ti auguro che tutto vada per il meglio, e che nel tuo futuro non incappi in uno stupratore, in un marito violento, in un ex ossessivo che ti toglierà la vita quando smetterai di essere sua proprietà”.
Ci tengo perché questi auguri li voglio interpretare come un buon auspicio per il mio futuro, in cui si spera che non perderò il lavoro per una gravidanza e che nessun collega potrà mai fregarmi il posto perché è maschio.

Sembra un luogo comune, ma è vero: non solo le donne non sono il sesso debole, ma anzi per fare la donna ci vuole un coraggio bestiale. E quando gli uomini dicono che ce la siamo cercata, che abbiamo voluto la bicicletta e ora dobbiamo pedalare, potrebbero anche farci il grande favore di chiudere il becco: sì, è vero, di lavorare lo hanno scelto le donne, ma per crescere un figlio dove sta scritto che debba servire per forza una donna 24 ore su 24? Già una donna lo partorisce, lo accudisce e sa tutti i suoi cavoli e le sue paturnie, è proprio necessario che debba anche sorbirsi tutti i colloqui con i professori dalla prima elementare al quinto liceo? Ma soprattutto, è mai possibile che la giustificazione del marito debba essere “io devo lavorare”? Siete in due a lavorare tesoro caro, una volta va uno e una volta l’altro. Ed io parlo da figlia di padre “con la sindrome del casalingo”, che seppur oberato di lavoro c’è stato SEMPRE e si è anche sorbito le file dai prof. Solo che perfino il mio fantastico papà è incapace di andare a fare la spesa senza il cellulare a portata di mano per chiedere ogni due per tre delle delucidazioni alla mamma.

Quindi oggi i miei auguri vanno a tutte le splendide donne che conosco.
Auguri a mia mamma, che è la mia eroina e il mio modello, ed è la madre migliore che io conosca e che potessi desiderare, oltre ad essere una donna bellissima, una lavoratrice instancabile e una moglie meravigliosa. A lei va tutta la mia ammirazione per aver dribblato una malattia con estrema disinvoltura, ed aver trovato la sua strada per la felicità facendo la scelta coraggiosa di cambiare lavoro dopo tanti anni.
Auguri alla mia nonna materna, una delle mie amiche più care, che si è tenuta per sé tutta la femminilità che io non avrò mai, e che ha preso la patente a quarant’anni per poter portare in giro i suoi figli, e nonostante il nonno fosse spesso fuori di casa per lavoro ha saputo crescere tre figli meravigliosi, che sono mia mamma, mio zio e mia zia.
Auguri alla mia nonna paterna, che senza mai perdere il sorriso è sempre stata lì, con le sue poche parole, ad aiutare i suoi figli e i suoi nipoti. A lei va il mio ringraziamento per tutte le influenze passate in sua compagnia, per la dedizione che ci ha messo per ricamare a ciascuna di noi nipoti i corredi per quando saremo grandi, per tutte le volte che suo malgrado ha accettato anche ciò che non le andava a genio pur di rendere felici tutti noi.
Auguri alla mia prozia, che ha fatto della sua vita una missione al servizio del prossimo, e che ha cresciuto tre nipoti e cinque pronipoti che le hanno fatto vedere i sorci verdi e l’hanno costretta a ripetere infinite volte la storia di Biancaneve prima di dormire e a giocare a nascondino facendola correre per tutta la casa.
Auguri alle mie quattro zie, lontane e vicine.
Auguri a mia sorella, piccola donna che vedo sbocciare sotto i miei occhi, e che riesce ad avere una determinazione ed una forza di volontà che io non avrò mai. Nonostante i nostri scontri, non posso fare a meno di essere orgogliosa di lei, che è piccola come un bonsai ma forte come una quercia secolare.
Auguri a Zamira, la mia bella Mira, che mi ha vista crescere e che lavora dalla mattina alla sera senza mai e poi mai perdere il sorriso. E soprattutto grazie perché mi sopporta da quando avevo 8 anni con tutte le mie imitazioni e rotture di balle varie, e non riesco a contare tutte le volte in cui mi ha evitato di finire nei casini.
Auguri alle mie professoresse del liceo, che ho visto sorridere per cinque anni nonostante tutte le avversità che il lavoro di professore comporta.
Auguri alla mia coinquilina, Miriam, che ogni giorno si fa il mazzo a svegliarsi all’alba per fare tirocinio in ospedale e poi quando torna a casa deve anche sopportarmi.
E infine auguri alle mie amiche più care, in particolar modo a Reisa, la mia bimba testarda e ostinata, che non si adegua mai alla massa e non scende a compromessi; ad Eugenia, una delle persone più positive ed autoironiche del mondo; ad Estella, che è timida ma straordinaria, ed è l’amica perfetta: auguri a loro che giorno per giorno mi aiutano a superare i grandi e i piccoli ostacoli col sorriso e con la consapevolezza che, qualsiasi cosa accada, ci saranno.

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Quella malandrina della Harrison

Quella malandrina della Harrison

E’ da stamattina, da quando sono andata a lezione di Greco, che mi frulla per la testa una nuova idea circa il mio futuro. 
Oggi il mio caro prof (quello che somiglia un po’ a Dobby, l’elfo di Harry Potter) ha iniziato a trattare l’argomento del mito, della leggenda e del folklore. Argomento interessante, non fosse che prima ti devi fare du’ palle così a sentir parlare di tutti gli studiosi che hanno avanzato le teorie più disparate riguardo alla classificazione dei suddetti.

In questa lista infinita di cristianucci che hanno espresso il loro parere from all over the world, ad un certo punto un nome ha catturato la mia attenzione.
“La Harrison, e state attenti, ho detto LA Harrison, perché era una signorina”. 
Ed ecco che già a quel punto i miei radar erano entrati in azione: oh, finalmente qualcosa di diverso, ma pensa te, una donna di cui hanno preso in considerazione le ricerche, è un miracolo! Inutile dire che già a quel punto avevo iniziato a provare una certa stima per questa donna. 

Poi la lezione è andata avanti, e ho scoperto che, manco a dirlo, LA Harrison era avversata dai suoi colleghi maschi, non solo per l’insolita pretesa di avere un cervello nonostante fosse donna, ma anche perché era definita “leggerina” e “avvezza ai costumi pagani”. 
Ora, sinceramente non so né credo che saprò mai se effettivamente LA Harrison si trastullasse con sollazzevoli e promiscue compagnie, ma poco m’importa: è stato subito amore. Una donna così, studiosa e determinata nonostante le accuse che le venivano rivolte, merita tutto il mio rispetto. Non ai livelli della Littizzetto ovviamente, che è il mio amore grande, ma siamo là.

Ieri ero al telefono con un amico e parlavamo del fatto che dopo la laurea entrambi vorremmo andare a vivere fuori, nello specifico io vorrei andare in Nuova Zelanda. 
“A fare che?” mi ha giustamente chiesto lui, perché tanto quando studi Lettere Classiche la domanda è sempre quella, e sei bollata come barbona finché non ti trovi un lavoro che non sia elemosinare ai lati della strada. 
“A insegnare latino e greco in Nuova Zelanda!” gli ho risposto io, e lui si chiedeva se lì, dall’altra parte del mondo, avessero un minimo interesse ad occuparsi di Erodoto e compagnia bella. 
Oggi, con tutti ‘sti nomi stranieri che volavano per l’aere, posso dire con certezza che sì, anche nel resto del mondo ci sono altri pazzi che amano le Lettere Classiche! E questo per me è un enorme vantaggio, perché sto pensando seriamente di seguire le orme delLA Harrison. 

Non so se mi spiego: vivrei insegnando ciò che mi piace, lo potrei fare anche dall’altra parte del globo e soprattutto, dato che si è capito che nessuno riuscirà mai a sopportarmi oltre un certo tot di tempo, potrei avere anche tante stupide storielline una dietro l’altra. Certo, verrei definita anch’io “Leggerina”, ma vuoi mettere la soddisfazione? In vent’anni di vita nessuno si è mai azzardato a definirmi “Leggerina” con la mia propensione a mangiare tutto il mangiabile, io st’ebbrezza la vorrei proprio provare. 

 

Personality begins where comparison ends

Personality begins where comparison ends

Personality begins where comparison ends

Non ricordo più quanto tempo fa ho letto questa frase, né ricordo chi l’abbia pronunciata, ma mi è rimasta impressa perché l’ho sentita subito mia. 
Per chi avesse letto già qualche post qui sul blog non è una novità: la mia autostima, su una scala da 1 a 10, tende ad assumere valori negativi per la maggior parte del tempo.

Ecco perché mi ripeto come un mantra delle frasi d’incoraggiamento (come questa) per migliorare la mia percezione di me stessa, il più delle volte senza crederci davvero. In questi giorni poi, non so perché, ho attraversato la fase “lagna vivente”. Della serie che per circa una settimana il pensiero più gentile che ha attraversato la mia mente è stato “sono un roito inguardabile” oppure “sono una buona a nulla incapace che non combinerà mai nulla di buono nella sua vita” o ancora “non troverò mai un compagno di vita, e se lo troverò mi renderà la donna più cornuta della storia”. 
Sì, insomma, pensieri lievi e leggiadri.

Poi stamattina mi sono svegliata, e non avevo lezioni mattutine. In compenso avevo in programma un pranzo con le mie amiche, le collegiali con cui vivevo l’anno scorso. Le ho incontrate alle 12:30, alla fermata del bus, e poi siamo andate in massa al ristorante Jappo, dove c’è il menù fisso e si può mangiare di tutto e pagare 11 euro a cranio. (E i giapponesi ogni volta che ci vedono si pentono di aver proposto questa offerta, perché quando mangia il nostro gruppo rischiano la bancarotta). 

Eravamo tutte a tavola, nove fanciulle ognuna diversa dall’altra che ridevano delle stesse stupidaggini. Sei facoltà diverse, ognuna col proprio stile, ognuna coi propri capelli, ognuna col proprio viso, ognuna col proprio modo di truccarsi. Ognuna col suo accento.

E io le guardavo, le mie amiche, ed erano tutte bellissime.
Eppure erano tutte diverse.
Non erano vestite tutte allo stesso modo, ma a nessuna importava un granché. Non avevano tutte la stessa forma fisica, ma ognuna aveva quel particolare che colpiva. Tutte diverse e tutte meravigliose.

Allora la mia giornata ha preso un’altra piega: ma chi l’ha mai detto che mi devo omologare a dei modelli che, magari, esistono solo nella mia testa? Per essere fighi non bisogna avere per forza il paio di jeans all’ultima moda. Sì, bè, se volete comprate anche quello che non guasta mai, ma per il resto basta semplicemente seguire le proprie inclinazioni, dare il meglio, sorridere.

Le mie amiche sono tali perché non sono delle bamboline idiote che si preoccupano solo del loro aspetto, e posso assicurare che questo non significa nel modo più assoluto che siano delle brutte ragazze o dei topi da biblioteca con l’acne e la forfora (al contrario, per quanto mi riguarda sono una massa di gnocche).

Molte volte, l’anno scorso, mi sono chiesta come mai nonostante fossimo tutte così differenti l’una dall’altra andassimo tanto d’accordo: oggi ho trovato la risposta. Per farsi apprezzare non è importante rendersi passivamente uguali alla massa, ma saper mantenere la propria frizzante ed unica personalità sapendo accettare con allegria quella degli altri.