Devo essere sincera, sono quasi due mesi che penso all’eventualità di scrivere questo post. Ne ho immaginato molto spesso l’eventuale sviluppo, ho raccolto sensazioni, emozioni e impressioni, belle e brutte.
Ma ero indecisa se scriverlo per due motivi: innanzitutto parla di un’esperienza di volontariato, e perciò non volevo correre il rischio di dare l’impressione di star richiedendo delle lodi, né tanto meno volevo rischiare di dargli un sapore moralizzante. E il secondo motivo è che, per quanto assurdo possa sembrare a me stessa che tendo più alla condivisione che alla gelosa conservazione, ci sono cose che sono talmente belle da vivere che a raccontarle si rischia di mettersi troppo a nudo, o di non dare loro il giusto spazio, di non saperle descrivere e raccontare degnamente.
Eppure oggi, mentre una settimana o poco più mi separa dal momento in cui rivedrò i miei compagni di avventura, ho deciso di prendere il toro per le corna: il post lo scrivo, acciderboli. Perché ho deciso che il blog è di tutti quelli che hanno la pazienza di leggerlo, ma prima di tutto mio. Ed è qualcosa a cui tengo tantissimo, perciò merita più di ogni altro di essere riempito di belle parole e di belle sensazioni.
E quindi eccomi qua, a parlare dell’esperienza più bella tra quelle fatte quest’anno. O negli ultimi anni, che dir si voglia. Quindici giorni in Albania con cui speravo di ottenere tutto e niente, entrambe cose che alla fine ho ottenuto: niente, perché mica in Italia ci è tornata un’Elisa Wonderwoman, capace di fare tutto e improvvisamente puntuale e ligia ad ogni singolo impegno. Tutto, perché per quanto scontato possa sembrare porto dentro me ogni singolo momento passato in compagnia di persone speciali, ognuna a modo suo, che mi hanno donato tanto anche quando non lo sapevano.
Di solito non pubblico frammenti così personali, ma questa volta è un’eccezione. Dal mio “diario di bordo”, scritto a poche ore dalla partenza: “Non so cosa mi aspetti, una volta tornata in Italia. Credo solo che stanotte piangerò senza ritegno, che piangerò anche sul traghetto, che tornare a studiare mi peserà in modo assurdo. Che ora vorrei scrivere il triplo, ma non riesco a tradurre in parole la meraviglia che mi scoppia nel petto.”

Che descritto così sembra quasi che avessi passato quindici giorni di poesia, mano nella mano con il boy dei miei sogni a leggere Prévert e a sorseggiare champagne mangiando fragole a lume di candela. E invece sono stati quindici giorni di lavoro, in cui mi coricavo sempre troppo tardi (per colpa mia) e il giorno dopo maledicevo la me stessa del giorno prima quando levavo faticosamente le stanche membra alle sette del mattino. Quindici giorni in cui ho portato a cavalluccio scalmanati e adorabili bimbetti, ho ballato fino a ridurre il vestito a un mocio Vileda, ho riso fino alle lacrime, ho cucinato (poco, stranamente), ho mangiato (tanto, non così stranamente) e ho pregato, costretta a volte volentieri e altre volte meno a delle riflessioni che non sempre volevo affrontare, ma alla fine sono sempre stata felice di averlo fatto.
In breve, la parte “tecnica” dell’esperienza si può riassumere così: sono arrivata al porto di Durazzo verso le 23 del primo di agosto, completamente sola. Scriverò magari in un altro momento della comicità del mio arrivo in quel porto, ma per fortuna trovare suor Angela (che vedevo per la prima volta in vita mia) è stato meno difficile del previsto. Il resto della brigata, composto praticamente da soli polentoni tra lombardi, veneti e friulani, anzi friulano, era già arrivato lì nel pomeriggio. La romana, diciottenne mascotte del gruppo, è arrivata il giorno dopo.
Essendo arrivati nel weekend, per i primi due giorni non abbiamo lavorato più di tanto: una bella visita a Tirana, che se dovessi descrivere in poche parole definirei “la città dei contrasti”, un po’ di relax giocando a Taboo e a Memory, e un po’ di tempo per organizzare i giochi con i bambini e ambientarci. Abbiamo anche deciso chi di noi sarebbe andato ogni giorno a fare animazione a Kamez, un paesino in provincia di Tirana. Poi abbiamo conosciuto gli animatori albanesi, ragazzi e ragazze dai 14 ai 22 anni che hanno suscitato immediatamente la mia invidia, dal momento che tutti, nessuno escluso, sanno almeno un po’ di italiano di base. E io invece in albanese sapevo giusto quattro parol(acc)e.
Dal mattino del lunedì è iniziato il lavoro e, almeno per quanto mi riguarda, il divertimento vero. Le nostre mattinate iniziavano con una robusta colazione, poi c’era il lavaggio piatti una lavata di denti ed eravamo pronti a ricominciare. I bambini arrivavano a frotte, correndo e saltando, ridendo e cantando, e iniziavamo la giornata ballando con loro. Poi c’era il momento di riflessione, quasi un’oretta dedicata al lavoro manuale del giorno e infine i giochi, spesso all’aria aperta e altrettanto spesso innaffiati da rinfrescanti gavettoni per resistere al caldo sole albanese. Nonostante questo, alla fine della mattinata eravamo sfiniti e puzzolenti di sudore: interessante osservare come tutti, italiani e albanesi, grandi e piccini, puzzassimo di sudore nello stesso identico modo.
Nel weekend dopo abbiamo fatto altre due gite, di cui una meravigliosa al mare di Lezha e una, esaltante, al museo dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderbeg e al museo etnografico di Krujë.
Per il resto le nostre giornate si snocciolavano tranquille, la mattina lavorando con i bambini e spettegolando con gli animatori del posto, il pomeriggio, dopo aver lavato le millemila stoviglie dei nostri pranzi (un sentito plauso a Matteo, eroe del lavaggio piatti), riposavamo un po’ e poi ci dedicavamo all’organizzazione del giorno dopo, alla preghiera (ma soprattutto alla riflessione) collettiva, infine alla preparazione della cena con relativo lavaggio piatti. La sera si riposava, si rideva, si guardavano le stelle e si imparava qualche insulsa canzoncina in albanese. Io cantavo ad alta voce dalla mattina alla sera, come mio solito, e per questo mi chiedo, ancora incredula, come abbiano fatto a non sopprimermi per l’esasperazione.

Un paio di volte a settimana gli animatori albanesi sono stati con noi anche nel pomeriggio, e ci hanno insegnato i loro balli tipici: li conoscevano tutti, e hanno una cultura del ballo che io, personalmente, trovo meravigliosa. Per le ragazze ballare è una manifestazione di femminilità, per i ragazzi di virilità. E in tutto questo, forse anche per una cultura ancora molto conservatrice, non c’era nulla di sconcio o erotico. Sensuale, al massimo, nel più candido e bello dei sensi.
Inutile negarlo: ci separa da loro un tratto di mare di pochi chilometri, ma culturalmente siamo agli antipodi. Eppure neanche tanto, perché in Dafina, Gena, Fabjola, rivedevo in tanti aspetti una piccola Elisa di qualche anno fa, con le sue cotte da adolescente e le sue risatine sceme, ma al tempo stesso con espressioni di maturità sorprendenti: questo solo per dire che l’adolescenza è uguale ad ogni latitudine, come anche l’infanzia e la vecchiaia e qualsiasi età, e che le condizioni in cui si vive, in fondo, sono solo un contorno.
La cultura albanese, come anche la lingua, è un mix estremamente variegato: ci sono retaggi turchi, russi, elementi italiani a non finire, qualche aspetto greco, qualche parola che deriva dallo spagnolo e tanto altro ancora. Ma, cosa sorprendente, questo non fa di loro un popolo altrettanto frammentato o privo di identità, al contrario! Gli albanesi hanno una fortissima identità culturale, e nonostante si possano riconoscere in loro tanti elementi all’apparenza contrastanti, di fatto ogni cosa si fonde perfettamente in quell’insieme, creando una cultura che non è occidentale, o balcanica o orientalizzante, ma più semplicemente albanese.

Sono un popolo orgoglioso, forse a volte un po’ troppo passionale, ma ciò che mi è piaciuto molto nel loro modo di accoglierci è stato notare in ognuno di loro una certa fierezza: non rinnegano nessuno dei problemi che sono purtroppo ancora presenti nella loro terra, ma non si giustificano per la loro presenza. Sono deliziosamente accoglienti, ma a qualsiasi ospite deve essere ben chiaro che i padroni di casa sono loro, quand’anche la casa fosse spoglia o priva di un salotto accogliente.
Come Tirana, anche tutto il resto dell’esperienza per quanto mi riguarda è stato tutto un susseguirsi di contrasti: a nessuno dei nostri ragazzi mancava un cellulare, spesso neanche un abbonamento a internet su quest’ultimo, ma alcuni bambini erano orgogliosi quando i loro capelli profumavano di shampoo. Alle ragazze non è permesso avere un fidanzato prima di una certa età, e presentare alla famiglia quello che potrebbe non diventare un marito è quasi un reato, ma d’altra parte a guardare i ragazzi non c’è nulla di male no? E d’altro canto i ragazzi, sapendo che in Italia abbiamo una mentalità un filino più aperta, non erano assolutamente timidi nel manifestare il loro apprezzamento per noi italiane. Non c’è stato verso di convincerli che avevo più di vent’anni, ma sarà per quello che “facevo coppia fissa” con Ledio, rubacuori quattordicenne che continua a mancarmi anche a due mesi dal mio ritorno.
Le strade erano spesso dissestate, ma poi qualche chilometro dopo c’era un grand hotel a quindicimila stelle, che non aveva nulla da invidiare ai nostri. Gli albanesi non sono un popolo di musulmani: certo, ce ne sarà una grande percentuale, ma sono un popolo laico in cui le religioni convivono pacificamente. Molti di loro non sono praticanti, ma chi lo è, lo è sul serio.
E poi, ancora, un po’ per mancanza di tempo e un po’ per non sprecare i soldi sul cellulare quindici ragazzi tra i 18 e i 27 anni hanno del tutto scordato cosa fosse internet, Whatsapp, Facebook e ogni forma di comunicazione che non fosse quella sana e diretta. La sera, parlando al telefono con i miei genitori, credo di averli turbati spesso e volentieri continuando a dire che non avevo nessuna intenzione di tornare, perché lì stavo davvero troppo bene.
Si dice che, quando si va in Africa, poi sia difficile tornare indietro perché si è colpiti dal cosiddetto “mal d’Africa”. Non avevo invece mai sentito parlare del mal d’Albania, che però a quanto pare esiste eccome e ci ha colpiti un po’ tutti indistintamente. Le sensazioni, i colori, i profumi, la bellezza, le persone che ho trovato non potevano essere descritte in poche righe, né nelle molte che ho già scritto in questo post.
Torneranno sicuramente, nascoste tra le parole dei prossimi post, sempre presenti nei miei ricordi, sempre pronte a donarmi un sorriso. Nel frattempo non posso fare altro che concludere il post con un sentito grazie a tutti, anzi, faleminderit të gjithë.
