FREE HUGS

FREE HUGS

La gente mi piace e mi affascina: amo il suo odore, amo il calore dei suoi abbracci, la morbidezza delle sue guance e la sporgenza delle sue ossa. Amo i capelli della gente, amo i suoi molteplici accenti, amo lo scambio di idee e di sguardi fugaci che posso avere con gli sconosciuti sul treno.

Dio se adoro la gente, la amo sopra ogni cosa finché non conosco davvero, a fondo, ciascuno dei suoi componenti, a partire da me stessa: vengono fuori i difetti, iniziano le delusioni e crolla lo stupefacente castello di meraviglie che la mia mente contorta ha partorito.

Preferirei conoscere ogni giorno una persona nuova, che nel nostro incontro mi mostrasse solo la parte migliore di sé, come in ogni primo incontro che si rispetti. Tornerei ogni giorno a casa fantasticando sulla mia nuova conoscenza, facendola cristallizzare in una nuvola di perfezione e restando, per tutta la vita, col cruccio di volerla rincontrare e l’impossibilità di farlo.

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Come nello speed-dating, come su ChatRoulette: via uno, arriva l’altro. Se solo si potessero abbracciare gli sconosciuti per strada senza essere scambiati per pazzi o maniaci!
Passerei le mie giornate ad abbracciare tutti. L’abbraccio, più ancora del bacio, è la migliore invenzione umana di tutti i tempi. Significa calore, protezione, sensualità e maternità al tempo stesso. È l’unione tra la debolezza e la forza, l’anello della pace e il momento della perfetta armonia.

Ecco perché, tempo fa, mi era venuta l’idea del cartello “FREE HUGS”, quello dei film americani per intenderci. Ne ho anche fatto uno, in piena regola, con una scritta in grassetto molto alla buona su un pezzo di cartone marroncino, di quello da pacchi. È lì in bella mostra in camera mia da più di un anno ma ancora non ho avuto l’occasione, o il coraggio, di usarlo.
Ma chissà che non abbia il coraggio di portarlo con me nella prossima fuga in una qualsiasi delle cittadine del nord che ogni tanto mi diverto a visitare. Per abbracciare nuovi sconosciuti con nuovi odori, nuovi capelli, nuovi accenti. Chiederei a bruciapelo “Come stai?” e se la risposta fosse “Bene” abbraccerei lo sconosciuto con entusiasmo, se stesse male con tenerezza.

io e ledio abbracciati

Poi chiederei loro “Qual è la prima cosa che ti viene in mente?” e chissà, alcuni mi risponderebbero che desiderano un gelato, altri mi direbbero di farmi i fattacci miei, altri starebbero pensando alla nonna in cielo e qualcuno a una persona che ama ma da cui non è ricambiato. O magari incontrerei qualcuno che sta studiando una cura per il tumore, chi può dirlo. Mi affascinerebbero tutti, ognuno nella propria impenetrabile bolla di sapone.

E poi capisco di poter sembrare contraddittoria, ma ciò che più mi piace della natura umana è il suo essere soggetta all’errore: dall’esterno riusciamo tutti a sembrare perfetti, ma poi anche un plurilaureato può avere due o tre o cinquanta lapsus al giorno. In qualsiasi momento, intelligenti e complessi come siamo, stiamo sempre cadendo un po’ in errore, anche senza rendercene conto. Siamo tante macchine perfettamente difettose.

E allora, forse, è anche bello conoscere un po’ più chi ci intriga e ci colpisce. Tante volte, anzi, praticamente sempre, si rischia la delusione. A volte prima, a volte poi, quando è troppo tardi e ormai ci si è affezionati fin troppo.
All’apparenza c’è un sacco di gente bella bellissima, ma anche il ragazzo più bello, sotto la barba da conquistatore, nasconde la cicatrice di una pustola da varicella. Però magari sotto la stessa barba nasconde un cuore tenero e un animo sensibile. Però, di contro, magari è anche permaloso come una donnetta isterica.

Tutto sta, almeno secondo me, nel capire se i difetti che troviamo negli altri li rendono, ai nostri occhi, deludenti o ancora più intriganti. O perlomeno se il fatto di trovare nell’altro un difetto non ci impedisce di vederlo perfetto ai nostri occhi, come se anche le sue imperfezioni facessero parte di un grande disegno di bellezza.
È raro trovare persone così, che ti spingano ad amarle nonostante i loro difetti o proprio in virtù di questi. A me, negli anni, è capitato davvero poche volte, ma ogni volta che ho stabilito che il mio affetto per qualcuno sarebbe stato duraturo e non intaccabile dai suoi difetti, non mi sono mai pentita.

E di recente ho conosciuto un altro paio di queste persone speciali, di questi strani esseri i cui difetti più che respingermi mi hanno avvicinata a loro.
Fatto curioso: ciò che accomuna praticamente tutte queste persone che mi sono care è il naso. Hanno quasi tutti un naso, se non sempre grosso o importante, come minimo non regolare. Non piccolo, ecco.

Nessun nasino alla francese per le mie persone del cuore, tranne per papà che, a detta di mia madre, ha un naso assolutamente perfetto. Ma non me ne rammarico: essendo lui, per me, un papà eccezionale, gli è concesso fare eccezione anche in questo.

Ti sento (con)vivere

Ti sento (con)vivere

Oh bella. Due miei amici al terzo anno di relazione (dire “fidanzamento” mi fa salire l’angoscia) hanno preso casa insieme. Che poi sarebbe a dire “sono andati a convivere” in versione edulcorata per genitori sensibili.

Carini, eh. Carinissimissimi. Lo sono sempre stati e adesso sembrano esserlo ancora di più. Io e la mia testa calda non sappiamo come facciano ad essere così felici senza avere mai una discussione o spararsi un bel “vaffa” bello tosto una volta a settimana, ma loro resistono imperturbabili e felici e ogni giorno più entusiasti della loro storia.

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Ieri sono andata a trovarli per la prima volta da quando sono nella casa nuova o, meglio, sono andata a trovare lei che è una delle mie più care amiche e due volte a settimana da quest’anno facciamo zumba insieme.
“Invitami a pranzo da te, traditrice maledetta, che devo vedere la tua nuova casa.”. E così, dietro mio gentile autoinvito, abbiamo passato una bella giornata insieme, dall’ora di pranzo fino al post zumba. Abbiamo cucinato un bel pranzetto, abbiamo mangiato in modo equilibrato, ritirato i panni asciutti dallo stendino e messo a stendere quelli umidi presi dalla lavatrice. Poi abbiamo rifatto il letto matrimoniale (Dio santo che dolcezza, Dio santo che ansia) e ci siamo messe a studiare in attesa dell’arrivo di lui e dell’ora di andare a zumba.

Le lezioni di lui finiscono sempre dopo quelle di lei, perciò nel pomeriggio, come in ogni famigliola felice che si rispetti, lui è tornato a casa, è uscito subito dopo per andare in farmacia a comprare le medicine per lei, è tornato nuovamente e l’ha sgridata per aver messo tutto in ordine e non avergli lasciato nulla da fare, perché il suo amorino non deve stancarsi troppo.

Ciò che mi lascia allibita, in tutto questo, è la naturalezza con cui lei si è adattata a fare tutto ciò che fa: sempre entusiasta, senza emozioni esagerate né in positivo né in negativo, tiene in ordine la casa, sta dietro a tutto, fa la lavatrice, programma i pasti per la settimana convincendo il suo lui a mangiare sano e a non ingozzarsi di schifezze e tiene perfettamente a posto la casa nonostante all’appartamento nuovo manchino ancora alcuni mobili fondamentali, come ad esempio un armadio.
In camera mia ci abito solo io, ed è enorme e completamente ammobiliata, eppure periodicamente sulla sedia girevole cresce e svetta fiera una pila di vestiti talmente alta da portare un visitatore di passaggio a credere che quella stanza sia abitata da un’orda di barbari a cui è sconosciuto l’uso delle grucce e dell’armadio.

Devo dire la verità, un po’ li invidio. Io non riuscirei mai a condurre un’esistenza così dolce e tranquilla. Non che mi piaccia litigare, ma in una relazione ne avrei bisogno. Odio la sensazione che lascia un litigio, non riesco a restare arrabbiata per più di un quarto d’ora e probabilmente litigherei solo per far dopo la pace, ma ogni tanto sentirei proprio il bisogno fisico di scagliare una litania di improperi contro il povero malcapitato. Sarà anche per quello che sono ancora Singola, eh.
Loro no, invece, continuano tranquilli e sereni con un entusiasmo che, certo, non è uguale quello del primo mese, ma non per questo è meno tenero e/o sentito.

E forse ha anche un po’ ragione mia nonna quando mi dà dell’immatura, perché conoscendomi sono più un tipo che si fa infiammare facilmente dall’entusiasmo e poi, una volta raggiunti i primi, magari anche brillanti, risultati si sgonfia come un soufflé venuto male. E poi ho ancora una visione dell’amore un po’ più romantica e adolescenziale, non so se mi spiego.

Sogno ancora che il mio lui venga a prendermi sotto casa con la sua Vespetta scassata e mi faccia arrivare alla festa di gala col bordo del vestito lungo tutto macchiato, perché il genio è stato capace di prendere tutte le pozzanghere della città. Sogno perfino di fare io al mio ipotetico lui le sorprese romantiche che generalmente fanno i ragazzi alle ragazze, e le farei davvero, se solo non fossi così timida e insicura da non esternare mai troppo i miei sentimenti per paura del rifiuto.

Sogno addirittura, pensate un po’, di lavare i boxer del mio lui, anche quelli con l’elastico promemoria che ha su la scritta “UOMO”, per chi a metà mattinata si fosse scordato che tipo di genitali contengono i suoi suddetti boxer. Sogno di preparare al mio lui i biscotti caldi e fargli trovare il letto rifatto dalle mie amorevoli manine di fata e perfino – udite, udite – di lavare dal lavandino i suoi residui di dentifricio che mannaggia a voi uomini non ve li pulite mai da soli. Sarei perfino disposta ad abbassare l’asse del water ogni volta che tocca a me fare la pipì, ma tutte queste attenzioni potrei reggerle per un tempo molto limitato. Va bene giocare a fare il maritino e la mogliettina, ma un bel gioco dura poco.

E poi mi chiedo come potrei rammendare i calzini del mio lui, io che a metà serata mi rendo conto di avere una smagliatura sul collant che parte dall’inguine e arriva al ginocchio, Come potrei preparare dei pasti sani ed equilibrati per uno che avrebbe il doppio del mio appetito? Finirei per infornare a ripetizione plumcake e lasagne per i primi due mesi, e poi improvvisamente a tornare alla solita routine e a costringere il povero malcapitato a fare le stesse stupidate che faccio io, del tipo cenare con una tazza di cereali e un po’ di frutta quando torno stanchissima da zumba e non ho lo sbatti di cucinare. Probabilmente, a quel punto, lo ridurrei a mangiare surgelati fritti e strafritti per disperazione.

Come potrei, che ne so, aiutarlo a prepararsi la valigia prima di tornare dai rispettivi genitori per le vacanze? Nella più rosea delle ipotesi, conoscendomi, tornerei a casa con la sua schiuma da barba e lo farei partire con una tale scorta di biancheria intima femminile in valigia da portare la sua povera mamma a credere di aver tirato su un maniaco.
E la depilazione, ne vogliamo parlare?! Dovrei essere sempre perfetta e costante. Non che ora vada in giro con i capelli sulle gambe, ma in inverno abbiamo tutti il diritto di essere meno sexy sotto al pigiamone di pile, no? Il quale pigiamone di pile, a proposito, non sarei mai capace di indossarlo davanti al mio lui, complessata come sono, e mi ridurrei a dormire in canotta e pantaloncini anche a gennaio, sostenendo di non avere freddo e restando costantemente influenzata.

Ma poi mi chiedo perché devo pormi tanti problemi, dal momento che sono ancora Singola e, almeno per ora, la situazione non accenna a cambiare di una virgola, quindi figuriamoci quanto tempo ho ancora prima di un’eventuale convivenza! Ciò che più mi conviene, forse, è riflettere ancora una volta sui vantaggi dell’essere Singola (…), come ad esempio quello di potermi allenare ad essere una donnina per benino nell’attesa che arrivi lo scimpanzé della mia vita a rimescolare le carte e a rimettere casino dove ero faticosamente riuscita a mettere in ordine.

E in ogni caso, parlando seriamente, c’è un solo periodo dell’anno in cui mi pesa sul serio non amare qualcuno, ed è quello natalizio. Non per l’eventuale regalo che potrei ricevere dal mio lui, che chissenefrega, i regalazzi me li fa anche mia nonna, ma proprio perché la notte del 24, quando mio cugino Gianmarco ha deposto ancora una volta Gesù Bambino nella mangiatoia e siamo tutti lì a scambiarci gli auguri io sento proprio una sovrabbondanza d’amore che dovrei donare a qualcuno di speciale. E poi vuoi mettere il primo limone dell’anno con la persona che ami? Mica pizza e fichi. Limonare con uno sconosciuto in discoteca il primo di gennaio è da galera, su questo non transigo. Il primo bacio dell’anno va dato alla persona che ami, quindi piuttosto che darlo al primo pirla di turno lo darei al mio cane, che almeno ci amiamo davvero.

io e tato

Forse la soluzione sarebbe proporre ai grandi magazzini di vendere, oltre ai panettoni e i pandori e le lucine natalizie, anche dei fidanzati e delle fidanzate a noleggio per noi cuori solitari un po’ sentimentalucci. Tu vai lì, ti scegli quello che più ti piace e te lo porti a casa per una quindicina di giorni, poi il 7 gennaio lo riporti al negozio. Certo, magari dovrai pagare una cauzione se gli hai fatto un graffio, o dovrai fare attenzione a non farlo ingrassare che poi alla fine delle vacanze non ci entra più nella confezione, ma almeno per qualche giorno sei libera/o di riversare su qualcun altro lo zucchero di troppo.

Rreh si zemer qiftelia, o sa e madhe o Shqiperia

Rreh si zemer qiftelia, o sa e madhe o Shqiperia

Devo essere sincera, sono quasi due mesi che penso all’eventualità di scrivere questo post. Ne ho immaginato molto spesso l’eventuale sviluppo, ho raccolto sensazioni, emozioni e impressioni, belle e brutte.
Ma ero indecisa se scriverlo per due motivi: innanzitutto parla di un’esperienza di volontariato, e perciò non volevo correre il rischio di dare l’impressione di star richiedendo delle lodi, né tanto meno volevo rischiare di dargli un sapore moralizzante. E il secondo motivo è che, per quanto assurdo possa sembrare a me stessa che tendo più alla condivisione che alla gelosa conservazione, ci sono cose che sono talmente belle da vivere che a raccontarle si rischia di mettersi troppo a nudo, o di non dare loro il giusto spazio, di non saperle descrivere e raccontare degnamente.

Eppure oggi, mentre una settimana o poco più mi separa dal momento in cui rivedrò i miei compagni di avventura, ho deciso di prendere il toro per le corna: il post lo scrivo, acciderboli. Perché ho deciso che il blog è di tutti quelli che hanno la pazienza di leggerlo, ma prima di tutto mio. Ed è qualcosa a cui tengo tantissimo, perciò merita più di ogni altro di essere riempito di belle parole e di belle sensazioni.

E quindi eccomi qua, a parlare dell’esperienza più bella tra quelle fatte quest’anno. O negli ultimi anni, che dir si voglia. Quindici giorni in Albania con cui speravo di ottenere tutto e niente, entrambe cose che alla fine ho ottenuto: niente, perché mica in Italia ci è tornata un’Elisa Wonderwoman, capace di fare tutto e improvvisamente puntuale e ligia ad ogni singolo impegno. Tutto, perché per quanto scontato possa sembrare porto dentro me ogni singolo momento passato in compagnia di persone speciali, ognuna a modo suo, che mi hanno donato tanto anche quando non lo sapevano.

Di solito non pubblico frammenti così personali, ma questa volta è un’eccezione. Dal mio “diario di bordo”, scritto a poche ore dalla partenza: “Non so cosa mi aspetti, una volta tornata in Italia. Credo solo che stanotte piangerò senza ritegno, che piangerò anche sul traghetto, che tornare a studiare mi peserà in modo assurdo. Che ora vorrei scrivere il triplo, ma non riesco a tradurre in parole la meraviglia che mi scoppia nel petto.”

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Che descritto così sembra quasi che avessi passato quindici giorni di poesia, mano nella mano con il boy dei miei sogni a leggere Prévert e a sorseggiare champagne mangiando fragole a lume di candela. E invece sono stati quindici giorni di lavoro, in cui mi coricavo sempre troppo tardi (per colpa mia) e il giorno dopo maledicevo la me stessa del giorno prima quando levavo faticosamente le stanche membra alle sette del mattino. Quindici giorni in cui ho portato a cavalluccio scalmanati e adorabili bimbetti, ho ballato fino a ridurre il vestito a un mocio Vileda, ho riso fino alle lacrime, ho cucinato (poco, stranamente), ho mangiato (tanto, non così stranamente) e ho pregato, costretta a volte volentieri e altre volte meno a delle riflessioni che non sempre volevo affrontare, ma alla fine sono sempre stata felice di averlo fatto.

In breve, la parte “tecnica” dell’esperienza si può riassumere così: sono arrivata al porto di Durazzo verso le 23 del primo di agosto, completamente sola. Scriverò magari in un altro momento della comicità del mio arrivo in quel porto, ma per fortuna trovare suor Angela (che vedevo per la prima volta in vita mia) è stato meno difficile del previsto. Il resto della brigata, composto praticamente da soli polentoni tra lombardi, veneti e friulani, anzi friulano, era già arrivato lì nel pomeriggio. La romana, diciottenne mascotte del gruppo, è arrivata il giorno dopo.
Essendo arrivati nel weekend, per i primi due giorni non abbiamo lavorato più di tanto: una bella visita a Tirana, che se dovessi descrivere in poche parole definirei “la città dei contrasti”, un po’ di relax giocando a Taboo e a Memory, e un po’ di tempo per organizzare i giochi con i bambini e ambientarci. Abbiamo anche deciso chi di noi sarebbe andato ogni giorno a fare animazione a Kamez, un paesino in provincia di Tirana. Poi abbiamo conosciuto gli animatori albanesi, ragazzi e ragazze dai 14 ai 22 anni che hanno suscitato immediatamente la mia invidia, dal momento che tutti, nessuno escluso, sanno almeno un po’ di italiano di base. E io invece in albanese sapevo giusto quattro parol(acc)e.
Dal mattino del lunedì è iniziato il lavoro e, almeno per quanto mi riguarda, il divertimento vero. Le nostre mattinate iniziavano con una robusta colazione, poi c’era il lavaggio piatti una lavata di denti ed eravamo pronti a ricominciare. I bambini arrivavano a frotte, correndo e saltando, ridendo e cantando, e iniziavamo la giornata ballando con loro. Poi c’era il momento di riflessione, quasi un’oretta dedicata al lavoro manuale del giorno e infine i giochi, spesso all’aria aperta e altrettanto spesso innaffiati da rinfrescanti gavettoni per resistere al caldo sole albanese. Nonostante questo, alla fine della mattinata eravamo sfiniti e puzzolenti di sudore: interessante osservare come tutti, italiani e albanesi, grandi e piccini, puzzassimo di sudore nello stesso identico modo.

Nel weekend dopo abbiamo fatto altre due gite, di cui una meravigliosa al mare di Lezha e una, esaltante, al museo dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderbeg e al museo etnografico di Krujë.
Per il resto le nostre giornate si snocciolavano tranquille, la mattina lavorando con i bambini e spettegolando con gli animatori del posto, il pomeriggio, dopo aver lavato le millemila stoviglie dei nostri pranzi (un sentito plauso a Matteo, eroe del lavaggio piatti), riposavamo un po’ e poi ci dedicavamo all’organizzazione del giorno dopo, alla preghiera (ma soprattutto alla riflessione) collettiva, infine alla preparazione della cena con relativo lavaggio piatti. La sera si riposava, si rideva, si guardavano le stelle e si imparava qualche insulsa canzoncina in albanese. Io cantavo ad alta voce dalla mattina alla sera, come mio solito, e per questo mi chiedo, ancora incredula, come abbiano fatto a non sopprimermi per l’esasperazione.

io e ledio

Un paio di volte a settimana gli animatori albanesi sono stati con noi anche nel pomeriggio, e ci hanno insegnato i loro balli tipici: li conoscevano tutti, e hanno una cultura del ballo che io, personalmente, trovo meravigliosa. Per le ragazze ballare è una manifestazione di femminilità, per i ragazzi di virilità. E in tutto questo, forse anche per una cultura ancora molto conservatrice, non c’era nulla di sconcio o erotico. Sensuale, al massimo, nel più candido e bello dei sensi.

Inutile negarlo: ci separa da loro un tratto di mare di pochi chilometri, ma culturalmente siamo agli antipodi. Eppure neanche tanto, perché in Dafina, Gena, Fabjola, rivedevo in tanti aspetti una piccola Elisa di qualche anno fa, con le sue cotte da adolescente e le sue risatine sceme, ma al tempo stesso con espressioni di maturità sorprendenti: questo solo per dire che l’adolescenza è uguale ad ogni latitudine, come anche l’infanzia e la vecchiaia e qualsiasi età, e che le condizioni in cui si vive, in fondo, sono solo un contorno.
La cultura albanese, come anche la lingua, è un mix estremamente variegato: ci sono retaggi turchi, russi, elementi italiani a non finire, qualche aspetto greco, qualche parola che deriva dallo spagnolo e tanto altro ancora. Ma, cosa sorprendente, questo non fa di loro un popolo altrettanto frammentato o privo di identità, al contrario! Gli albanesi hanno una fortissima identità culturale, e nonostante si possano riconoscere in loro tanti elementi all’apparenza contrastanti, di fatto ogni cosa si fonde perfettamente in quell’insieme, creando una cultura che non è occidentale, o balcanica o orientalizzante, ma più semplicemente albanese.

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Sono un popolo orgoglioso, forse a volte un po’ troppo passionale, ma ciò che mi è piaciuto molto nel loro modo di accoglierci è stato notare in ognuno di loro una certa fierezza: non rinnegano nessuno dei problemi che sono purtroppo ancora presenti nella loro terra, ma non si giustificano per la loro presenza. Sono deliziosamente accoglienti, ma a qualsiasi ospite deve essere ben chiaro che i padroni di casa sono loro, quand’anche la casa fosse spoglia o priva di un salotto accogliente.

Come Tirana, anche tutto il resto dell’esperienza per quanto mi riguarda è stato tutto un susseguirsi di contrasti: a nessuno dei nostri ragazzi mancava un cellulare, spesso neanche un abbonamento a internet su quest’ultimo, ma alcuni bambini erano orgogliosi quando i loro capelli profumavano di shampoo. Alle ragazze non è permesso avere un fidanzato prima di una certa età, e presentare alla famiglia quello che potrebbe non diventare un marito è quasi un reato, ma d’altra parte a guardare i ragazzi non c’è nulla di male no? E d’altro canto i ragazzi, sapendo che in Italia abbiamo una mentalità un filino più aperta, non erano assolutamente timidi nel manifestare il loro apprezzamento per noi italiane. Non c’è stato verso di convincerli che avevo più di vent’anni, ma sarà per quello che “facevo coppia fissa” con Ledio, rubacuori quattordicenne che continua a mancarmi anche a due mesi dal mio ritorno.
Le strade erano spesso dissestate, ma poi qualche chilometro dopo c’era un grand hotel a quindicimila stelle, che non aveva nulla da invidiare ai nostri. Gli albanesi non sono un popolo di musulmani: certo, ce ne sarà una grande percentuale, ma sono un popolo laico in cui le religioni convivono pacificamente. Molti di loro non sono praticanti, ma chi lo è, lo è sul serio.

E poi, ancora, un po’ per mancanza di tempo e un po’ per non sprecare i soldi sul cellulare quindici ragazzi tra i 18 e i 27 anni hanno del tutto scordato cosa fosse internet, Whatsapp, Facebook e ogni forma di comunicazione che non fosse quella sana e diretta. La sera, parlando al telefono con i miei genitori, credo di averli turbati spesso e volentieri continuando a dire che non avevo nessuna intenzione di tornare, perché lì stavo davvero troppo bene.

Si dice che, quando si va in Africa, poi sia difficile tornare indietro perché si è colpiti dal cosiddetto “mal d’Africa”. Non avevo invece mai sentito parlare del mal d’Albania, che però a quanto pare esiste eccome e ci ha colpiti un po’ tutti indistintamente. Le sensazioni, i colori, i profumi, la bellezza, le persone che ho trovato non potevano essere descritte in poche righe, né nelle molte che ho già scritto in questo post.
Torneranno sicuramente, nascoste tra le parole dei prossimi post, sempre presenti nei miei ricordi, sempre pronte a donarmi un sorriso. Nel frattempo non posso fare altro che concludere il post con un sentito grazie a tutti, anzi, faleminderit të gjithë.

tutti

Una risposta che convinca entrambe

Una risposta che convinca entrambe

Chiunque tu sia, povero sventurato che oggi si trova a passare sul mio blog, se sei iscritto all’Università non puoi negarlo: dal momento in cui hai ottenuto il famoso numero di matricola, almeno quelle due o trecento volte avrai pensato all’Erasmus. Esami dati con facilità, nuove lingue da bacia… imparare, discoteche, monumenti, discoteche, belle ragazze/bei ragazzi, discoteche, nuove culture, discoteche… sono tante le attrattive che rendono appetibile l’Erasmus.
Ma se la mamma dovesse chiederti perché l’Erasmus è così importante, tu cosa risponderesti?

La mia amica Lara, prossima a qualche mese di – ehm – intenso studio in Portogallo, si è divertita a porsi la domanda e a darsi una risposta che a me, sinceramente, è piaciuta da morire.
E quindi oggi la pubblico, ma onesta come sono non me ne prendo i meriti. Dai, su, applauditemi.

È venerdì Santo e, incurante delle tradizionali disposizioni dogmatiche, scongelo alla bell’emmeglio due porzioni di crocchette di pollo, buttandole in padella con gesti bruschi e nervosi. Sono arrabbiata perchè il Dipartimento di Studi Umanistici Bla Bla Bla è tra gli unici a non aver ancora pubblicato le graduatorie Erasmus e ormai, negli uffici, oggi, a quest’ora, non ci sarà più nessuno. Mio fratello mi fa notare che al centro il pollo è ancora freddo e proprio mentre penso qualcosa a metà strada tra “te le preparavi tu” e “Gesù se mi prendono morirò di fame” un’amica mi scrive: sono uscite.

È maleducazione mangiare con il cellulare sul tavolo, ma soprattutto è pericoloso: con certe notizie si rischia il soffocamento. Fremo.

Sto per scoprire se ho buttato una marea di tempo tra: burocrazia, prove linguistiche, viaggi labirintici nei siti delle “sedi ospitanti”, altra burocrazia, coda all’ufficio del delegato erasmus e fila a quello del vice delegato, oppure se ne dovrò buttare ancora chi sa quanto in chi sa che cosa (sul fatto che si tratterà di burocrazia posso mettere la mano sul fuoco insieme alle crocchette).

È qualcosa a cui tengo tantissimo, anche se non capisco bene perchè; me ne sono accorta subito dopo aver consegnato tutto, dopo che il sipario è calato sulle mie carte lasciandomi in mano del Destino (aka commissione esaminatrice).

Di certo non indago la ragione dei miei sentimenti mentre scorro con il mouse… Ci sono: quello è il mio nome e quella è la mia prima scelta. Mi guardo intorno: com’è che non è cambiato niente? Eppure io sono così felice! Sono felice? Non so a cosa sto andando incontro, non so se avrò la borsa di studio, non so se mi convalideranno esami e soprattuto non spiaccico una parola della lingua del Paesedidestinazione.

La facoltà di raziocinio unita a sano scetticismo e anche a un po’ di paura viene a transustanziarsi nella persona di mia madre nel primo pomeriggio.

La discussione si accende all’emergere dell’apparente semplice questione “ma perchè ci vuoi andare”, e con i toni più pacati possibili permessi dal sentirmi sminuita di fronte a un successo (ma lo sarà?) provo a convincerla di qualcosa di cui non sono convinta nemmeno io.

Mamma, quello dell’Erasmus è un vero e proprio mito. Ne senti parlare ancora prima di mettere piede in Università. Il primo giorno, se non ti si legge in faccia quanto tu sia matricolamente sperduta, qualcuno ti chiede se sai quando escono i bandi. Nella mente di noi studenti l’Uni è un limone: amara ma va spremuta. Mamma, è lo stesso motivo per cui frequento ogni giorno, o perchè ho voluto trasferirmi fuori sede.

L’Erasmus è il successivo, fondamentale, formativo gradino della scala per l’indipendenza.

Ma non sai nemmeno farti la lavatrice. Basterà provare per imparare. E cucinare? È un attimo dai.

Per la lingua?Non sei preoccupata? Parecchio, ma io ci voglio andare. E al massimo c’è sempre l’inglese.

Le obiezioni vengono ad una ad una smontate, dribblate; la confondo con paroloni quali “learning agreement” e “livello B2”, finchè, con un velo di tristezza sugli occhi, non cede. Vabè, fai almeno le cose per bene.

Mi sento vittoriosa, ma anche un po’ amareggiata. Perchè non ha condiviso subito la mia gioia? Perchè mi ha messo davanti a tutti quei problemi così stupidi – e così reali, aggiunge qualcosa nella mia testa.

Il fatto di non essere compresa da chi, vicino a me, mi ha sempre sostenuta fa nascere in me l’esigenza di spiegarmi meglio, di scavare dietro quella voglia un po’ cieca e un po’ testarda di “andare in erasmus” a tutti i costi

Siamo il più razionali possibili; è l’occasione per vivere un ambiente nuovo, conoscere persone, visitare un Paese straniero, imparare una nuova lingua e molto altro, almeno – se tutto va bene – parzialmente spesati dall’Università senza rimanere nemmeno – troppo – indietro con gli esami.

Motivazioni valide, ma sento che c’è di più. Siamo ancora più terraterra: con l’Erasmus posso registrare crediti extra e un’esperienza di questo tipo costituisce titolo preferenziale per l’assegnazione della lode in sede di laurea. Ottimo, questo convincerebbe quella pragmatica di mia madre. Ma ancora non spiega perchè ci voglio andare così ardentemente. Abbandoniamo le ragioni accademiche: viziata come sono, interporre qualche migliaio di chilometri tra me e casa mia è l’unico modo per imparare ad arrangiarmi. Vero. Poi? Poi se ho nostalgia è un attimo; Skype, Whatsapp. Sola non sarò mai. E se stessi rincorrendo un po’ di sana solitudine all’interno di una vita sempre collegata? Subito l’immagine sbiadita dalle lacrime della mia prima notte da fuorisede mi contraddice.

Eppure mi sembra così necessario. D’altronde senza perdermi in percentuali o in tipiche autocommiserazioni da letterata, la possibilit che il mio futuro comprenda la vita all’estero è più che concreta… È forse questa la prova generale per una vita radicata?

Riflettendo affondo nel divano e mi cade lo sguardo sulla foto di questa mamma-genera-crisi-esistenziali in abito da sposa. Farò a meno di pensare che era più giovane di quanto io non sia ora.

Di certo dietro quel sorriso si nascondevano dubbi inimmaginabilmente più grandi di questi che assillano me. Il Portogallo non lo devo mica sposare. Deduco che quindi anche lei si sia buttata senza tutte le carte in tavola, che qualunque sia la strada che scegli, a un certo punto arriva il salto nel buio.

La promessa di felicità a cui lei si abbandonava quel Settembre di tanti anni fa, la mia generazione la affida a una vita all’insegna del nuovo, dell’avventura? Il valore supremo è diventato l’Esperienza, in sé e per sé? Ma no dai. Prima o poi da qualche parte mi fermerò, tornerò indietro, penso. In ogni caso troverò il mio posto. Non ne ho la certezza, ma ci voglio credere. Forse allora ecco che ho trovato cosa mi ha spinto a investire tempo e fiducia nell’idea dell’esperienza Erasmus: l’ottimismo, la convinzione che questa sarà una tappa importante sulla strada verso chi voglio diventare.

Il nostro mondo si è ingrandito, e anche se le distanza di stanno praticamente annullando la strada si allunga e si fa più labirintica. Allora lasciamo alle mamme preoccupate le sensare e un po’ inquisitorie domande e partiamo a caccia delle risposte. Magari con qualche soldo in più.

Lara Betti