Senza voler in alcun modo mancare di rispetto a chi soffre davvero di un disturbo alimentare, negli ultimi tempi penso sempre più spesso di essere bulimica, nel senso in assoluto più ampio del termine.
Mi accorgo di nutrirmi con avidità dell’affetto di chi amo e stimo, di amare la lettura al punto tale da scordare ciò che mi circonda quando ho tra le mani un buon libro, di riuscire difficilmente ad avere mezze misure nell’occuparmi di me stessa, della casa, della mia salute fisica.
Invito gli amici per una cena improvvisata e preparo un minimo di tre portate perché mi piace cucinare e trattare bene i miei ospiti, poi magari il giorno dopo ho il frigorifero semivuoto, ma sono felice e mangio mezzo finocchio per pranzo sentendomi del tutto appagata.
Vado a correre e faccio squat ogni giorno per un mese, poi per due o tre settimane smetto perché ogni giorno c’è qualche piccolo imprevisto che mi impedisce più mentalmente che fisicamente di andare a fare esercizio.
Ho avuto un’infanzia oltremodo serena, piena di esperienze entusiasmanti e ricca di opportunità che ero talmente abituata ad avere sotto il naso da non saperle valutare degnamente: i miei genitori mi hanno permesso di viaggiare da sola fin da quando avevo appena 11 anni, ho studiato l’inglese fin dalle scuole materne, ho potuto arricchire la mia mente con ogni genere di attività, costruttiva e/o ricreativa che fosse.
E poi, quando ho iniziato a dover camminare un po’ di più sulle mie gambe, ho capito quanto fosse straordinario ciò che mi era stato sempre concesso come normale.
Sono cresciuta ritenendo normale l’aver imparato una seconda lingua fin da bambina, credendo che qualsiasi madre si sarebbe spesa come la mia per far apprezzare la lettura a una figlia in cui intuiva del potenziale ma che vedeva troppo pigra per scoprire il piacere dei libri da sola. Ho amato il latino e il greco fin dal giorno in cui, in quarto ginnasio, ho imparato a recitare tutto d’un fiato “alpha-beta-gamma-delta […] omega”. Avevo due anni e parlavo come un libro stampato, ne avevo cinque e rimproveravo i miei coetanei quando sbagliavano i congiuntivi (solo adesso riesco a capire che insopportabile so-tutto-io debba essere stata).
Sono sempre stata una bambina, poi un’adolescente e infine una ragazza diversa dalla maggior parte delle mie coetanee, ho avuto una sorta di adolescenza tardiva nei primi anni dell’università banalmente perché al liceo non avevo realizzato fino in fondo quanto fosse bello essere giovani.
E mi sono sempre sentita dire che sono “strana”, “particolare” per i più gentili. Una persona, che evidentemente mi ha capita fin da subito, sostiene che io abbia “qualche rotella indipendente”, e io di questa definizione mi sono subito innamorata, perché trovo mi descriva perfettamente.
Ho imparato solo in tempi recentissimi ad amare le mie stranezze e a coccolare quegli aspetti di me che ancora non riesco ad accettare del tutto, ma che quantomeno non odio più.
Trasferirmi a Pavia è stato fondamentale per la mia crescita personale: l’ambiente dei collegi mi ha fatto conoscere gente dagli interessi più svariati, accademici, politici o mondani che fossero, e ho capito di non essere pazza se amo imparare le lingue più disparate e mi esalto se so declinare il verbo “essere” o il verbo “avere” in albanese.
Ho attraversato un periodo tragicamente buio, in cui ho sfiorato la vera depressione, e ho deciso che ne sarei uscita. Sono dimagrita di oltre quindici chili, ma ho imparato ad amare le mie curve che mi hanno sempre imbarazzata.
Ho avuto l’opportunità, solo adesso riesco a definirla così, di collezionare una serie di fallimenti nel mio percorso di studi, e ho realizzato innanzitutto di non essere infallibile, e che le competenze personali devono sempre essere supportate da solide conoscenze. Ma ho anche compreso, veramente e provandolo sulla mia pelle, che i voti non definiscono l’intelligenza e le capacità di una persona. Che i buoni risultati sono note di merito, ma che i fallimenti colpiscono tutti e non ci si deve sentire finiti o sconfitti per questo.
E ho imparato a volermi bene anche nelle giornate in cui mi pesa alzarmi dal letto, nei momenti in cui ragiono tra me e me ad alta voce perché così “mi capisco meglio”, ho provato a scacciare i momenti di dolore e tristezza.
È difficile scrivere queste considerazioni senza la paura di suonare presuntuosa, evitando di farla apparire una pretesa di insegnare qualcosa agli altri: non sento in alcun modo di poter dare lezioni di vita a qualcuno, e dubito che mi sentirò mai “arrivata”. Non ho ancora raggiunto un traguardo accademico propriamente detto, ho avuto alcune esperienze lavorative ma ancora non so cosa ne sarà della mia vita da vera e propria adulta.
Però mi piaceva l’idea di fissare da qualche parte i pensieri che mi frullano per la testa ultimamente, per ricordarmi che anche questo continuo vagare che mi sembra non abbia mai davvero una direzione mi ha portata da qualche parte. Adesso mi voglio bene, e soprattutto provo affetto e tenerezza per ciò che non avevo mai voluto accettare della mia persona, e Dio solo sa quanto questo mi renda felice.
Credo che un genitore che legga quello che hai scritto possa decidere consapevolmente di avere raggiunto il traguardo più alto che potesse immaginare. Mi hai regalato un momento di eternità. Tuo padre
Non che tu sia di molte parole, ma sono sempre quelle giuste. Lo sai che questo pezzo è stato pubblicato anche per e grazie a te. Ti voglio bene