Tits and tricks: cosa non dovreste mai dire ad una tettona (part 1)

Tits and tricks: cosa non dovreste mai dire ad una tettona (part 1)

È un mondo più complesso di quanto si possa credere, quello delle tettone.
Come tutte le categorie al mondo, anche noi quotidianamente ci facciamo carico, oltre che del nostro importante davanzale, anche di una serie di onori e oneri, per quanto i secondi siano ignoti ai più.
Prima di cominciare con le mie solite dissertazioni, ci terrei a precisare che mi riferisco in particolar modo a coloro che maggiorate lo sono sempre, a prescindere, che pesino 50 kg o che raggiungano i 120 in gravidanza. Non per razzismo verso coloro che sono più tettone quando ingrassano o assumono la pillola, ma insomma cercherò di essere piuttosto specifica, e per farlo devo necessariamente restringere il campo di osservazione.

Ecco, poiché pare che la società ci ritenga alternativamente delle sfacciate stronzette baciate dal dio Eros o delle sfigatelle destinate al crollo di Pompei e a poter indossare le nostre mammelle come foulard prima dei cinquant’anni, sento che è giunta l’ora di sfatare alcuni miti e creare una guida per chi quotidianamente ha a che fare con delle maggiorate.

Sfatiamo innanzitutto uno dei miti più ricorrenti: le tettone non possono dormire a pancia in giù.
Cari amici, non diciamo castronerie. Se così fosse, non avrei dormito una singola notte dal compimento dei miei quattordici anni in poi, dal momento che mi è praticamente impossibile addormentarmi in qualsiasi altra posizione. Il seno, anche il più sodo del pianeta Terra, è fatto di tessuto molle, mica di marmo di Carrara. State pur tranquilli che dormiamo come chiunque altro. E no, il giorno dopo non ritroviamo due conche nel materasso, pochi centimetri sotto il cuscino.

Tanto tu hai le tette grosse, puoi anche non dimagrire! Ovvero cosa non dire mai alla sottoscritta se non si vuole rischiare di finire nella sua lista nera per il resto dei propri giorni. Punto primo, levatevi dalla testa che un seno prosperoso nasconderà una pancia prominente: al massimo può regalare l’effetto premaman, se proprio siete ingrassate e volete confondere le acque regalandovi una mastoplastica additiva.
Per il resto sappiate che è assolutamente il contrario: specialmente se bassine, le tettone danno sempre l’impressione di essere vagamente più in carne di quanto non lo sembrerebbero se avessero una taglia di reggiseno più comune, e spesso proprio per questo devono essere più attente delle altre nell’alimentazione. O fregarsene altamente del parere altrui, che è pur sempre una buona soluzione.

Tanto tu hai le tette grosse, ovvio che avrai sempre mille ragazzi dietro! Un po’ come dire che se ho 150 punti di QI potrò superare qualsiasi esame all’Università senza aver mai frequentato una lezione e/o aver aperto libro.
Ah ragà, fatevene una ragione: il fatto che si parta da una buona base non significa successo assicurato. Nel periodo della mia vita in cui pesavo 15 kg più di adesso e, in virtù di questo, grugnivo a testa bassa in risposta a qualsiasi coraggioso mi rivolgesse la parola, non mi si filava nessuno. E non l’avrebbero fatto neanche se fossi stata Angelina Jolie ma avessi mantenuto il medesimo atteggiamento.
Ovvio che avere un bel seno, dei begli occhi, un sedere tondo aiuta. Ovvio che essere in forma attiri più sguardi che assomigliare ad una forma di Grana Padano.
Per il resto, basta sorridere di più e tirarsela di meno. Senza eccedere nell’altro senso, ovviamente (del tipo, presentarsi porgendo la patata al posto della mano non vi classificherà come fighedilegno, ma d’altra parte, ecco… no).

Ahahah tu se fai la doccia non riesci a guardarti i piedi. Ok, premettendo che ciò è vero, quando mi racconterete cosa ci trovate di tanto emozionante e divertente nella visione dei vostri alluci bagnati magari capirò cosa mi perdo. Per il resto, piccola consolazione per coloro che affermano di amare le proprie ciliegine capezzolute ma poi ti guardano le poppe come se volessero strappartele a mani nude e cucirsele addosso: consolatevi belle di mamma, almeno voi non dovete fare evoluzioni degne di un contorsionista del circo di Mosca per chiudere la cintura di pantaloni, per poi rassegnarvi, esauste, a trovare a tentoni il buco in cui infilare il bastoncino.

Tu metti sempre le scollature perché vuoi metterti in mostra! Anche no, amici cari. Ieri, ad esempio, indossavo un maglioncino a collo alto, e non è che il ritornello sia cambiato di tanto (“Elisa spostati che in questa foto ci sono troppe tette”). In effetti sono proprio gli indumenti più accollati a metterci in mostra, non il contrario, e lo sappiamo meglio noi, che di capi addosso ne abbiamo sperimentati tanti, piuttosto che voi, professori di questo gran Pirellone.
Se credete che la moda sia clemente con chi ha più di una terza, vi sorprenderò: non è così. A meno che, ovviamente, non riteniate facile trovare un vestito che vi stia bene quando portate una taglia 48 di sopra e una 38/40/massimo 42 di girovita. Specialmente se poi avete le spalle strette magari, immaginate che divertimento! Mi è capitato non so quante volte dall’adolescenza in poi di comprare un bel vestito in negozio, e di consegnarlo alla sarta pochi minuti dopo per cambiarne completamente le proporzioni. Praticamente alcune di noi dovrebbero fare shopping nei negozi di taglie forti per magliette e camicie e poi scappare da H&M ai primi saldi per comprare i pantaloni nel reparto bimbi.
Dal momento che, dunque, a darci noia con i loro capi standardizzati ci sono già i produttori di moda, almeno voi abbiate la decenza di non sfrantecare gli ammennicoli. Vi ringrazio.

Femminista la minchia

Femminista la minchia

Sono arrabbiata e non poco. Sollevata, rincuorata, al caldo sotto le coperte, ma furiosa.

Ho cenato da alcuni amici, poi abbiamo studiato tutti insieme fino a poco più di mezzanotte. Dopodiché io e un amico, come spesso accade, ci siamo incamminati insieme verso le rispettive case per separarci a metà strada e proseguire ognuno per fatti propri.
Ero a circa 500 metri da casa quando una macchina mi si è affiancata e il suo conducente, con il finestrino semi-aperto, mi ha guardata attentamente ghignando e procedendo a passo d’uomo per qualche metro.

Poi ha proseguito, ma doveva aver capito dove mi stavo dirigendo e me lo sono ritrovato di nuovo al fianco: stesse occhiate, stessi ghigni, stesso passo d’uomo. Ho dovuto tirar fuori il cellulare e chiamare gli amici che mi avevano ospitata, far finta di parlare con mia madre, alzare il passo e tutta una serie di altre precauzioni e cavolate che non sto qui a ripetere, finché non sono stata al sicuro nell’androne di casa.

Se il problema si fosse limitato a stasera non sarei qui a dare spazio e importanza a un deficiente che, evidentemente, non aveva nulla di meglio da fare che dare fastidio a una ragazza sola e, di fatto, inerme.
Però domenica scorsa tornavo a casa, addirittura ad un orario più ragionevole, e un ragazzo nascosto dietro un cassonetto ha pensato bene di commentare il mio passaggio con una sorta di sibilo e una sonora risata con i suoi comparuzzi; ed anche in quel momento, ad essere sincera, non mi sono sentita propriamente a mio agio.

Sono furibonda perché, come dice la mia amica Reisa, “che cazzo aver paura di essere femmine”.
Sono furibonda perché non sono una persona che si spaventa facilmente, ma non sono neanche talmente incosciente da credere che potrei avere la meglio su uno stupratore.
Sono furibonda perché, se avessi un gemello identico in tutto e per tutto a me, che avesse solo dei genitali diversi dai miei, tra di noi ci sarebbero comunque delle differenze abissali.
Sono furibonda perché mi sento da sempre uno spirito libero, e mi rifiuto categoricamente di pensare che la mia sicurezza debba dipendere da un eventuale fidanzato che adesso non ho, certo, ma che se pure avessi mi ripugnerebbe ridurre al ruolo di guardia del corpo.

Non ho nessuna intenzione di continuare a vivere in un mondo in cui, in un giorno futuro, dovrò sentire la necessità di raccomandare a mio figlio minore di tenere d’occhio mia figlia maggiore.
Perché non va bene, perché non è giusto, perché magari se avrò una figlia, minore o maggiore che sia, sarà per tutta la vita più matura di suo fratello, o più volenterosa o più intelligente, o ancora matura, volenterosa e intelligente quanto lui, ma questo non potrà e non dovrà influenzare la sua sicurezza fisica e psichica.

A me ormai del femminismo dà fastidio il fatto che sia ancora necessario, perché mi è stato insegnato che le parole che finiscono in -ismo o -ista tendono un po’ tutte all’estremo, e agli estremi raramente si trova qualcosa di buono.
Mi dà fastidio che si debba ancora fare così tanta sensibilizzazione, e che una donna notevole come Emma Watson venga pubblicamente insultata e criticata sui social perché, nel dare il suo addio al collega Alan Rickman, ha citato l’impegno di quest’ultimo nella lotta femminista pur essendo uomo. Per chi non lo sapesse Emma Watson è stata accusata per questo di strumentalizzare la morte di un collega, di voler tirare acqua al suo mulino e di essere addirittura una persona disgustosa e priva di morale.

Se tanto odiate il femminismo, puttana la miseria, smettetela di farne esistere la necessità: smettetela di licenziare le donne incinte, non vi sognate mai più di chiedere ad una donna “lei ha intenzione di avere figli?” durante un colloquio di lavoro, non insegnate ai vostri figli che l’uomo che ha tante donne è un figo, ma la donna deve avere un solo uomo altrimenti, perdindirindina, non la potrete vendere per cento cammelli ma appena per dieci. Sempre a criticare il mondo islamico noi occidentali, eh? Poverine le donne islamiche, che vivono sempre assoggettate al padre, e poi al fratello e poi al marito. Ma i miei nonni, i miei genitori, la maggior parte delle mie amiche, sono più contenti di sapermi tornare a casa a piedi con un amico, piuttosto che in bici con due amiche.
Smettetela di divertirvi a spaventarci in questo modo: non è divertente, non lo è affatto, e se voi doveste subire il medesimo trattamento da un energumeno omosessuale alto due metri e dotato di una fantasia perversa come la vostra la pensereste esattamente come noi.
Smettetela anche di insegnare ai vostri figli che il maschio può essere anche stronzo, deficiente e coglione, ma la donna è puttana, troia, cagna o zoccola: siam sempre lì.
Smettetela di darmi spunti per scrivere post seri e incazzati, infervorati, che trasudano bile e sangue marcio, che io voglio scrivere di cose belle e tornare a lamentarmi di quanto siate pirla quando siete in buona buonafede, o di quanto poco siate tonici in confronto a Claudio Marchisio.

E poi basta, davvero. Non vi chiedo i parcheggi rosa, né l’abbassamento dell’IVA sui tampax, non vi chiedo di non prendermi in giro né di cedermi il passo aprendo cavallerescamente la porta da cui passeremo entrambi: io, come tante altre, di queste cose me ne sbatto.

Abbiate solo la decenza di essere civili. Grazie.

(P.s. A proposito della mia amica Reisa, la sistemazione della grafica di questo blog è merito suo, come anche la foto della sottoscritta che campeggia lì in alto.Se volete dare un’occhiata ai suoi lavori cliccate qui http://reisahboksi.tumblr.com/. Lei non sa che volevo farle questa pubblicità, però se la merita, quindi perché no?)

 

 

 

Ritorno alla psicanalisi

Ritorno alla psicanalisi

Senza alcun intento di fare riflessioni profonde o filosofia spicciola, mi sono resa conto di essere in un momento di estremo e totalizzante cambiamento nella mia vita. Sono giunta ad uno dei mille “turning points” che, immagino, tutti prima o poi dobbiamo affrontare.

È un momento talmente doloroso, pieno di pugni nello stomaco e paranoie dal gusto fantascientifico che, ne sono sicura, il risultato al quale approderò non potrà che essere meravigliosamente sorprendente.
Non per qualche sorta di karma, né per qualsiasi altro motivo mistico e intriso di mistero o magia, ma semplicemente perché mille e più motivi mi stanno portando alla riscoperta di me stessa, e non ho alcuna intenzione di farmi ritrovare meno che sensazionale agli occhi della mia propria persona.

Ho trascurato mio malgrado il blog negli ultimi mesi perché sono stata costretta a fare a meno del pc all’incirca da metà agosto, e ad essere sincera il bisogno di comunicare agli altri in questi ultimi mesi, per quanto grande, non è comunque riuscito a sovrastarmi fino al punto da rendere sopportabili i mille fastidi e piccoli problemi che mi procura l’app di WordPress per iPhone. Niente fogli elettronici, dunque, ma nuovamente pagine di quadernone ricche di cancellature e scarabocchi, un quadernetto generosamente regalatomi da una zia troppo buona che vomita scleri adolescenziali e poesie di Alda Merini, note sul cellulare che oscillano tra propositi autodistruttivi e disperato amore per la vita.

baudelaire

Mi sono sostanzialmente accorta di non apprezzarmi abbastanza dal punto di vista intellettuale, di ritrovarmi spesso a credere di essere stupida, o meglio di esserlo diventata, mi sono sentita superficiale e mi sono addirittura sentita dare della superficiale (io, sempre etichettata come la principessa dei ragionamenti contorti), mi sono chiesta di che diavolo di sindrome dovesse soffrire una ventitreenne che ricorda perfettamente scorci della propria vita vissuta a due anni di età ma, se solo potesse, riuscirebbe a dimenticare sui mezzi pubblici il proprio fondoschiena.

Ho una nostalgia così forte della mia infanzia passata a curiosare, a leggere libri troppo difficili per me, a leggere dell’infanzia di bambini vissuti nel dopoguerra italiano e sognare di giocare insieme a loro, insieme alla mia nonna e ai suoi cugini. Mi prende un senso di rabbia e frustrazione tale se penso a quante volte, da bambina e preadolescente, mi sono sentita strana e sbagliata quando qualsiasi POF o PON che presentassero a scuola mi sembrava bello e interessante, che trattasse di filosofia o di educazione civica o di una nuova lingua da imparare.

Ho sempre avuto così tanti interessi da coltivare tra le mie mille perdite di tempo, così tanta genuina curiosità, che la mia vita accademica sarebbe dovuta essere un incessante inanellarsi di successi vissuti a cuor leggero, piuttosto che una continua lotta contro l’ansia e il tempo che diminuisce in vista dell’esame mentre mi chiedo quando, porca miseria, quando sono cambiata così tanto.

È arrivato un momento in cui sono giunta alla sconvolgente conclusione di essere la più acerrima nemica di me stessa: tutto questo tempo dedicato alla masturbazione mentale, al chiedermi disperatamente dove fossero finiti tutti i miei interessi, non ha fatto altro che sottrarre tempo ed energie ai miei veri interessi, che sono troppi e dispersivi, certo, ma magari troverò il modo di collegarli fino a formare un disegno coerente, se solo d’ora in poi riuscirò a canalizzare i miei sforzi anziché disperderli nell’aere come sono solita fare per la mia dannata natura da sognatrice.

Mi sono accorta, infine, di quanto ancora una volta il mio affannoso tentativo di essere gentile con tutti e non fare del male a nessuno mi abbia spesso portata a compiacere gli altri anche quando ciò non mi era assolutamente richiesto. Sono arrivata fino al punto di ridurre l’uso del congiuntivo nella lingua parlata, per non mettere in soggezione coloro che mi contestavano un linguaggio troppo forbito e complicato.
Ho ascoltato, stupefatta, i pareri di persone che si erano costruite una propria opinione della mia persona in base al partner che ritenevano mi sarebbe stato più congeniale, e mi sono detta che i feedback che ricevo non sono altro che il frutto dei miei input, e che mi spaventa che la gente, di me, possa percepire ciò che sono dal tipo di persona che vorrei avere al mio fianco.

Sono un individuo, sono unica né più e né meno di tutti gli altri, sono molto di più della ricerca di un ipotetico colui con cui un giorno dividerò delle esperienze e un letto in cui dormire.

Quindi se questa ansia, questo camminare costantemente sui carboni ardenti, questo stomaco che continua imperterrito a strizzarsi ogni tre/quattro ore saranno forieri di un cambiamento radicale, tanto meglio.
Voglio continuare a provare paura e dolore ancora un po’, fino a quando lo potrò sopportare e con l’unica speranza che non succeda nulla di estremamente brutto e irreparabile.

Assurdo, o forse affascinante o tragicomico, che tutto questo po’ po’ di riflessione sia scaturita dalla visione di un film nel quale il “turning point” del protagonista è rappresentato da un omicidio.

 

 

 

Perché ho messo anch’io la foto arcobaleno

Perché ho messo anch’io la foto arcobaleno

Io sono nata con la camicia, devo ammetterlo. Sono una ragazza italiana nata in un periodo in cui l’Italia era un paese più che benestante. Sono bianca, etero, cattolica credente (anche se ultimamente, per pigrizia, poco praticante) e per di più mi ha generata la più tradizionale e felice delle famiglie. Sono, insomma, una di quelle fortunate accentratrici di tante caratteristiche che la gente definisce “normali”.

Eppure ieri ho arcobalenato anch’io la mia foto profilo, e il 6 giugno ero al gay pride di Pavia con tanto di adesivo “HUMAN RIGHTS ARE MY PRIDE!”, generosamente distribuito da Amnesty International, incollato sul petto.
Per la prima volta sono andata ad una di queste carnevalate, come spesso le ho sentite chiamare ultimamente, e ho compreso tante cose nuove.

Ho capito innanzitutto che non si può giudicare degnamente qualcosa dall’esterno, e che visto da dentro il Gay Pride spesso e volentieri non ha nulla a che vedere con i trans ballerini e glitterati che si vedono in tv. Che ci sono, certo, ma non sono neanche il 2% di tutta la gente presente in questo tipo di manifestazioni.
Ho visto gente salire sul palco e dire a gran voce che una giornata del genere, in un mondo civile, non dovrebbe avere ragione di esistere.
Che molto spesso chi è gay e si rende conto di esserlo sulle prime si vergogna, si sente inadeguato, crede di essere sporco e di dover guarire da una malattia che di fatto non esiste. E che per questo combatte: perché le future generazioni non debbano più essere vessate o discriminate per il proprio orientamento sessuale.

E poi molte delle persone che ho visto al Gay Pride erano le stesse con cui, nella quotidianità, bevo una birra o discuto degli esami da dare. Le stesse che ritengono la propria omosessualità una caratteristica come può esserlo il colore degli occhi o dei capelli, e che non si sono mai presentate dicendomi “piacere, io sono omosessuale”, ma semplicemente mi hanno raccontato delle proprie pene o gioie d’amore per persone del loro stesso sesso allo stesso modo in cui io raccontavo loro di quanto fosse pirla il ragazzo con cui avevo a che fare in un preciso momento storico della mia vita.

Al Pride, insomma, ho visto persone normali a cui sono negati i normali diritti che io stessa ho sempre ritenuto scontati, e a questo punto mi sono chiesta se ci fosse effettivamente un motivo valido per negarglieli.

Dal punto di vista religioso so bene che secondo la Bibbia un uomo che giace con un altro uomo commette abominio (Levitico, 18:22 “Non avrai con maschio relazioni come si hanno con donna: è abominio”). E ok, è vero, la Bibbia dice effettivamente così.
Però secondo il Levitico va contro la mia religione anche cibarsi di crostacei, indossare vesti tessute di due materiali diversi, incrociare bestie di due razze diverse (e tanti cari saluti al mulo e al bardotto), avvicinarsi all’altare di Dio se si hanno problemi di vista (blasfema io, che sono miope e mi confesso e prendo la Comunione!). Insomma, a leggere tutta la Bibbia e interpretarla alla lettera in un futuro potrei ancora vendere mia figlia come schiava, essere lapidata se tradissi il mio futuro marito e nel frattempo essere sottomessa a lui più o meno allo stesso modo in cui sono sottomesse le tanto criticate e biasimate donne islamiche dei nostri giorni.

Non metto in discussione i dogmi della mia stessa religione, sia chiaro, però mi pongo un paio di domande. Se oggi nessuno mi innaffia di acqua santa vedendomi mangiare le linguine col sugo di aragosta, probabilmente ormai mangiare crostacei non è più considerato un peccato. Perché ostinarsi a considerare tale l’omosessualità?
Gesù, Gesù Cristo in cui credo e spero, dava l’assoluzione alle prostitute e ai pubblicani e voleva con sé in Paradiso il ladrone alla destra della sua croce.
Perché dovrei credere che voglia veder bruciare tra le fiamme dell’Inferno un uomo che ama un altro uomo?
Ciò visto e considerato, il mio pensiero da credente è questo: non lo so cosa mi aspetta nell’aldilà, non so se sarò condannata per aver indossato camicette di lino e cotone o per aver difeso gli omosessuali, ma nel frattempo non sopporto di vedermi riconosciuto un diritto negato a molte altre persone, e pertanto non mi sento in torto se combatto al loro fianco.

Da laica, invece, mi rendo conto di vivere in uno stato laico, sebbene inevitabilmente e fortemente condizionato dalla presenza del Vaticano e dal comune pensiero di stampo cattolico.
Ci terrei però a ricordare che nessuno pretende un matrimonio cattolico per gli omosessuali, che si battono invece perché lo Stato riconosca loro il diritto di formare una famiglia. E famiglia dal punto di vista civile significa anche che io, donna che ama un’altra donna da cinque o dieci o quindici anni, ho il diritto di assisterla giorno e notte in ospedale in quanto sua familiare. Significa anche che se muoio, e ho una cospicua eredità da lasciare ai miei posteri, ho il sacrosanto diritto di lasciarla alla mia amorevole e amata moglie piuttosto che al mio ipotetico e stronzo fratello che quando ha scoperto la mia omosessualità mi ha vietato di essere una zia affettuosa per i miei nipotini.

Il fatto che 50 Stati tutti insieme abbiano dichiarato INCOSTITUZIONALE vietare a due persone dello stesso sesso di sposarsi tra loro è una vittoria non indifferente, rendiamocene conto. Io sono stata davvero felice per l’Irlanda, quando è stato il suo turno, ma mi pare anche ovvio che gli Stati Uniti, che hanno più rilevanza mediatica di qualsiasi altro Stato al mondo, abbiano fatto più rumore anche questa volta.

Che poi gli stessi USA prevedano ancora atrocità come la pena di morte o la sanità a pagamento anche per poveri disgraziati che posseggono solo gli occhi per piangere mi turba, è ovvio. Ma non per questo mi sento stupida o in colpa a festeggiare un gesto così civile.
Un po’ come se, al momento dell’abolizione delle leggi razziali, qualcuno avesse detto “eh sì, adesso il mio amico color cioccolato può sedere sull’autobus accanto a me, però ci sono ancora degli stronzi pazzoidi che possono comprare liberamente delle pistole e fare una strage”.
Non ha senso mettere a paragone le due cose, santo cielo. Si festeggia l’acquisizione di un diritto, mica si smette di sperare che il mondo progredisca ulteriormente.

Facebook ha preso l’iniziativa delle foto arcobaleno proprio ieri: perché? Perché il 27 giugno del 1969, durante la notte, dei poliziotti irruppero in un locale gay negli Stati Uniti (lo Stonewall Inn) e un travestito ebbe per la prima volta il coraggio di ribellarsi. Il fatto che, nella stessa giornata, a 46 anni di distanza, sia stato riconosciuto un diritto agli omosessuali d’America è probabilmente una fortunata coincidenza, ma è stato anche bello poterla festeggiare così.

Non si tratta di essere caproni o di seguire una moda: se per una volta un gesto della massa è foriero di un messaggio positivo e di pace, benvenga seguire la massa. C’è stato anche chi l’ha seguita passivamente e senza capire cosa stesse facendo, non lo nego, ma non per questo si può fare di tutta l’erba un fascio.

E non nego che le mie siano tutte opinioni, e che come tali possano essere considerate condivisibili o meno, ma nel frattempo consiglio ai cosiddetti benaltristi di rassegnarsi a cambiare argomentazioni: non possiamo mettere le foto arcobaleno perché? Perché nel mondo dilaga la violenza? Io sono triste e indignata se penso all’attentato in Tunisia, all’infibulazione delle bambine (che è stata finalmente abolita in Nigeria!) e anche e soprattutto se penso ai poveri disgraziati che quotidianamente muoiono in mare nel tentativo di raggiungere la civilissima Italia di Salveenee e dei leghisti, ma non per questo mi sento in colpa se festeggio qualcosa di positivo.

State tranquilli, tutti voi che col matrimonio gay sentite minacciata la nostra cara famiglia tradizionale: non mi risulta che dopo l’abolizione dell’Apartheid tutti i bianchi siano diventati neri, non vedo perché dovremmo diventare tutti omosessuali se dovessimo estendere loro un diritto che, per noi stessi, riteniamo inalienabile.

Spaventapasseri/e

Spaventapasseri/e

Prima di iniziare a scrivere, respiro profondamente. Perché quando devo parlare di certe cagate desidererei fortemente non aver mai parlato del mio blog alla prof del liceo e vorrei tanto che i miei parenti non fossero così tanto innamorati delle belle parole che scrivo su di loro e anche un po’ delle cagate un po’ meno cagate e un po’ più profonde che di tanto in tanto pubblico qui sul blog.
Ma tant’è. E’ uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo.

Due settimane senza scrivere per me sono un’enormità, specialmente se penso che non solo non ho aggiornato il blog, ma non ho nemmeno bagnato di sofferto inchiostro pagine e pagine di robusti quadernetti sdruciti e ripieni di altri foglietti ripiegati e biglietti di cinema e mezzi di trasporto che fanno tanto tredicenne innamorata. E il motivo di questo apparente blocco è piuttosto piacevole, in realtà: sono state settimane piene, anzi pienissime. Ma, tutto sommato, serene. Emozioni molto belle e molto brutte in giusta proporzione, ma alla fine quelle belle hanno avuto la meglio. Ho avuto da fare e l’ho fatto felicemente.

Ma il blog, l’ho sempre detto e sempre lo ripeterò, non riesco ad abbandonarlo per troppo tempo. E allora di tanto in tanto lo apro, lo guardo, gli dico un paio di parole d’amore e poi lo richiudo. Perché l’unico pensiero negativo su cui avrei potuto dissertare – magari per esorcizzarlo – qui sul blog è la paura del futuro che ultimamente è diventata un pensiero costante, specialmente se e quando mi confronto con amici che vedo sempre più in gamba di me, più organizzati e dalle menti più lucide e fresche. La mia solita, commovente autostima.
E invece oggi ho deciso che no, non ho ancora trovato abbastanza spunti per prendermi in giro sulla mia paura del futuro, e posso invece rendere edotti i miei pazienti e innumerevoli lettori su di un argomento molto più ameno.

E’ ormai un mesetto abbondante che ho l’iPhone, santissimo iPhone. E anch’io, come tutti gli affezionati della mela elettronica, sono diventata un’impossessata iPhone-dipendente che all’improvviso sembra aver bisogno di un’app progettata a puntino perfino per espletare le sue quotidiane funzioni fisiologiche.
Poteva dunque mancare l’online dating? Certo che no, poffarbacco.

E così – papà ti scongiuro prendi con le pinze il contenuto di questo post – anch’io mi sono lasciata trascinare nel magico mondo di Tinder, il dorato luogo in cui per giudicare se qualcuno è fattibile o meno ti basta dare un’occhiata alle sue foto e scorrere il pollice verso destra per esprimere assenso e verso sinistra per esprimere dissenso (o disappunto, o disgusto che dir si voglia).
Ho impostato le mie preferenze su una fascia d’età non troppo ampia (all’incirca una decina d’anni) e, trovandomi a una quarantina di km da Milano, meglio nota come la fabbrica della nordica gnoccanza, ho optato per una distanza massima di 45 km. Così, per prudenza.

Ho scelto sei foto, ho (ovviamente) scritto un paio di – molto vaghe – informazioni sulla biografia e mi sono lanciata alla scoperta dei giovini Tinderiani approvando senza pudore alcuno soltanto quelli forniti di corpi degni di essere disegnati in un atlante di anatomia, oltre che di lineamenti da pubblicità di profumi francesi.
“Tanto figurati se ‘sti strafighi vanno a cagare proprio me”.
E invece. Troppi match, a mio avviso, ma non me ne lamento. Certo, nelle mie ricerche ho evidentemente prediletto il lato estetico intuendo nove volte su dieci di non avere a che fare con dei discendenti di Albert Einstein, ma per un po’ di sano e corroborante flirting online poco male.
E poi, nel caso in cui la situazione diventasse insostenibile, c’è pur sempre la possibilità di sfanculare il malcapitato semplicemente annullando la compatibilità. Semplice, no?

Inutile dirlo: la mia esperienza Tinderiana, da ragazza strana (cit.) quale sono, è ovviamente diversa da quella della maggior parte degli altri utenti. Innanzitutto perché mi ci sono iscritta per semplice curiosità, senza alcuna intenzione di ottenere un possibile appuntamento nella vita reale, ma piuttosto per capire quanti figoni potrebbero perdere le bave per me come io le perdo per loro.
E in questo, devo dire, Tinder aiuta. Perché tanto la tua preferenza resta segreta finché la controparte non ha a sua volta espresso un giudizio positivo nei tuoi confronti, e questo implica un sensibile calo di inibizioni e timidezze varie: via libera al giudizio sincero senza poi troppo cruccio se qualcuno dei tuoi eletti non ti ricambia, e di contro un aumento considerevole dell’autostima per ogni match particolarmente attraente.

Il secondo aspetto positivo di Tinder, poi, è il suo essere una sorta di finestra sul mondo degli appuntamenti e dei corteggiatori più o meno reali e/o concreti.
Essendo – giustamente – una specie di gioco basato sulla prima impressione, è perlomeno affascinante fare caso ai dettagli che gli utenti mettono in evidenza per fare colpo immediato sulle gentili donzelle fruitrici del servizio. E poi – perché no? – stilare una lista delle categorie più particolari e riportarla sul proprio blog ad uso e consumo delle proprie lettrici (o anche dei propri lettori) interessate all’argomento. E magari chiamare questa lista “Gli spaventapassere” (che dopo quella degli “Incacabili” che avevo stilato l’estate scorsa non mi sembra neanche un nome troppo cattivo, a dirla tutta).
Dopo il mio solito infinito preambolo passo dunque ad elencare quelle che, secondo il mio personalissimo giudizio, sono le categorie di utenti Tinderiani da evitare come la peste.

GLI SPAVENTAPASSERE

  • LO SLIPPINO: preferibilmente bianco, giusto per non lasciare spazio alcuno all’immaginazione. Sei foto monotematiche di questo abbronzatissimo e oliatissimo adone in costume praticamente adamitico, coperto solo da un impietoso triangolino di stoffa bianca che mette in risalto la pochezza o l’eccessiva abbondanza del disturbo. Due volte su tre le foto sono state scattate ad Ibiza o a Gallipoli, nella spiaggia più tamarra tra quelle a disposizione, e il candidato indossa occhiali da sole più grandi della sua stessa testa, è più depilato delle donne che vuole conquistare ed è circondato da belle fighe più tamarre di lui e molto probabilmente conosciute lì per lì e immediatamente immortalate per dare l’impressione di essere uno sciupafemmine.
    Tralasciando il – fondamentale – dettaglio che un look simile svilirebbe perfino un incrocio tra Nick Bateman e Claudio Marchisio, due volte su tre è il primo indizio di un QI paragonabile a quello di una salamandra. Aiuto.
  • IL NABABBO: nella foto numero 1 è a bordo della sua Porsche, nella numero 2 si intuisce perfettamente la marca del suo orologio, nella numero 3 (fighissima, un profilo mozzafiato, una mascella squadrata ricoperta dalla giusta quantità di barbetta castano chiaro) si legge a caratteri cubitali la firma dei suoi occhiali da sole. Coincidenze? Questo non credo. Non che non abbia stile, e magari anche intelligenza, ma mi sembra inutile specificare su cosa stia facendo leva per ottenere la vostra attenzione. A voi la scelta, mie care signore.
  • IL MEGALOMANE: almeno in 5 foto su 6 è impegnato a praticare sport estremi, dal bungee al rafting (entrambi sport che ho praticato perfino io, quindi tanto estremi non sono) al surf o allo snowboard.
    “Uno sportivo! E che c’è di male?”
    Nulla, se la descrizione che accompagna le foto non recita all’incirca “Vivo la mia vita al MAXIMO approfittando di tutte le occasioni che ha da offrirmi!!!!!! Carpe diem! Io sono nessuno perché nessuno è perfetto!!!” E via bellamente coglionando.
    Amico, sei bravo negli sport, non stai rivoluzionando il mondo. Calmati, tte prego.
  • IL MANIACO: foto tranquille, all’apparenza un ragazzo normale, magari delle sei fatidiche immagini una è stata scattata in biblioteca (non è stata fatta per caso, non ce la beviamo, ma uno gnocco che legge non ci dispiace per niente, anzi!). E infatti l’hai aggiunto alle tue preferenze, ci mancherebbe altro.
    IT’S A MATCH! Giuoia et giubilo.
    Questo fino al momento in cui non parte la chat.
    “Piacere, Sofonisbo.”
    “Piacere mio, Clitemnestra!”
    “Ho letto dalla tua descrizione che ami gli animali… io abito in una villa in campagna, se vieni a trovarmi ti metto subito a pecora… ahahah”.
    Ahahah. Compatibilità annullata in un quarto di secondo. Non sei sexy, sei più stupido di Flavia Vento e inquietante quanto la suddetta.
  • L’IMPEGNATO: lì per lì mica te lo chiedi perché almeno in due foto su sei sia accompagnato da questa bella e dolce fanciulla che lo abbraccia teneramente.
    “Sarà sua sorella, o la migliore amica che da anni lo sta friendzonando senza motivo alcuno”.
    Poi viene fuori che no, decisamente non è sua sorella. E non lo sta neanche friendzonando. Molto più semplicemente, lui ha photoshoppato la foto in modo da non far comparire le corna di lei.
    Condoglianze alla fanciulla e un sentito “Ma vai a cagare” al gentiluomo in questione.
  • BELLEZZA INTERIORE: ora, tutti abbiamo il diritto di essere brutti, per carità. Però, ecco, alcuni accorgimenti potrebbero anche salvarci in calcio d’angolo quand’anche non fossimo tanti replicanti di Brad Pitt e Angelina Jolie.
    E mi chiedo quindi perché – Dio santo – perché pubblicare foto che abbiano in primo piano proprio i difetti fisici più evidenti? Un minimo di consapevolezza di se stessi, miseria ladra! Se l’enorme cicatrice da appendicite è il vostro unico tallone d’Achille, mi chiedo chi vi costringa a mettere in mostra proprio quello, al posto di puntare, magari, su di un bel sorriso o su di un viso scolpito da Michelangelo.
  • L’UOMO DI MONDO: bello eh, bello davvero. Non sembra troppo superficiale, la sua descrizione è piuttosto tranquilla ed è stato lui il primo a scrivervi. Voi allora gli rispondete. E lui vi risponde il giorno dopo. E’ impegnato, impegnatissimo. Lavora e quando non è al lavoro frequenta locali fighissimi che “Ciccia, ti ci porto io a bere un mojito che ne valga la pena, tu cosa ne vuoi capire?”. No, infatti, non ne voglio capire proprio niente. Arrivederci e grazie.

Mi è bastato un mesetto scarso di questa diavoleria e già mi sono stufata. Non cancello l’applicazione perché “non si sa mai”, perché di tanto in tanto è pure divertente e perché quando mi sveglio in periodo premestruale e mi sputerei in un occhio fa sempre comodo sapere che qualche miope figone mi ritiene perlomeno potabile.
Per il resto, Dio me ne scampi e liberi. Preferisco perdere le staffe con i pirla che abitano il mondo reale.

Mamma Primavera

Mamma Primavera

Ho fatto un respiro troppo profondo, mentre correvo, e nel naso mi è entrata un po’ troppa primavera. Ho avuto un’immagine vivida di me, a sette anni, sulla mia altalena scolorita, che ti guardavo annaffiare le piante del giardino, correre di qua e di là, chiacchierare con la nonna, i lunghi capelli sempre in qualche modo in ordine, raccolti da un fermaglio rigorosamente abbinato al tuo modo di vestire. Anche e soprattutto quando sei in casa.
Il sorriso che non si spegne mai, sempre una parola gentile per tutti, poi qualche momento d’ombra, una sgridata, degli occhi severi che poi non ce l’hanno mai fatta a reggere il nostro sguardo per tanto tempo restando severi.

Ho pensato, qui, a mille chilometri di distanza, che forse la primavera ha ovunque lo stesso odore, e che questo è molto bello perché tu per me sei sempre stata la primavera, e così adesso che siamo lontane per la maggior parte del tempo la primavera è un poco te.

Mi piace che ci siano queste belle giornate, che stia arrivando questa stagione, perché anche per me, come per te, il sole è un carburante naturale. Mi dà energia e positività in qualsiasi momento, proprio come hai sempre fatto tu.
E tanti, ma tanti dei miei ricordi primaverili sono legati a te: i viaggi in macchina al ritorno da scuola, con i finestrini abbassati e il vento tra i capelli, e la musica e le risate. Le commissioni che sbrigavamo prima di Pasqua, comprando uova di cioccolato per tutti sempre all’ultimo momento, e tu hai sempre azzeccato i gusti di tutti, anche dei più schizzinosi. Le uova dipinte, o decorate col decoupage, Benedetta e la Mira che le mangiavano tutte crude e tu che ti preoccupavi che potessero sentirsi male. Le prime cene in giardino, i pranzi di Pasqua con le tavolate enormi e sempre perfettamente decorate secondo il tuo gusto impeccabile.
E lo scivolo rosso, che nei giorni più caldi era bollente, e l’altalena che adoravo e che allora mi sembrava così grande, e che mi ricorda il sole che tramonta sul giardino, il caldo che finalmente diventa sopportabile e tu che fai giardinaggio sempre con qualche tartaruga o qualche gatto o qualche porcospino tra i piedi.

E allora oggi respiravo la primavera e ridevo da sola, sorridevo ai passanti, ero felice apparentemente senza motivo e quando un ragazzo carino ha iniziato a guardarmi con interesse mentre correvo tutta sudata ho pensato con orgoglio che forse è vero quello che tutti dicono: che ho preso tutto da te, che ho le tue movenze e che magari come te riesco anche ad essere sempre affascinante in qualsiasi situazione. Ho aspettato di svoltare la curva e sparire allo sguardo di quel ragazzo per sternutire senza alcun ritegno, come un cavernicolo, come tu mi dici sempre di non fare, e ho sentito delle risate fragorose: ero sì sparita allo sguardo di un ragazzo, ma mi ero esibita in quel bel teatrino di fronte ad altri quattro. E quindi ho capito che no, ancora non ci siamo, e che per raggiungerti dovrò correre ancora un bel po’.

Questione di peso

Questione di peso

Che poi mamma e papà quand’ero piccola me lo dicevano sempre: “Elisa, le esagerazioni sono sempre sbagliate, nel bene e nel male!”. Che poi iniziare un post scrivendo “che poi” è da denuncia per oltraggio alla lingua italiana, ma facciamo finta di niente e proseguiamo.
Dicevo. Le mezze misure di oraziana memoria, queste sconosciute. O meglio queste denigrate, ignorate, brutalmente violentate.

In un altro caso avrei proseguito dicendo che è un vizio tipicamente italiano, questo di tendere sempre all’esagerazione, ma per fortuna o purtroppo a ‘sto giro mi duole constatare che non siamo soli.
“Elisa, arriva al punto: di che minchia stai a parlà?”.
Ecco, come al solito dissertavo senza specificare soggetti e complementi oggetti. E dire che la questione è di un certo peso.
“Embè?”

Ciccia che sì, ciccia che no, ecco di cosa parlo. Dall’esaltazione delle modelle sifilitiche con relativo florilegio di blog e siti pro-ana e pro-mia (per chi vivesse nella beata ignoranza di cosa siano: piattaforme virtuali su cui ci si scambiano consigli su come diventare anoressici/bulimici) allo sdoganamento della taglia 56 spacciata come normalità perché “curvy è bello”, “siamo curvy e proud”, “le donne vanno toccate”. Come se poi fossimo delle palline anti stress, voglio dire. O come se le taglie 38 fossero fatte di anidride carbonica o di elio: impossibile toccarle.

Da una parte Abercrombie&Fitch che tempo fa sollevò un polemicone per le sue taglie eccessivamente striminzite, con relativa dichiarazione d’intenti di non voler essere rappresentati dai ciccioni e dagli sfigati, dall’altra le modelle taglia millemila con visi d’angelo e mole da bisonte che affermano di sentirsi perfettamente a proprio agio nel loro corpo e di condurre un regime di vita sano.

E in tutto questo il favoloso mondo di internet, terra di bufale astratte e concrete, che alimenta e accende il dibattito ad minchiam. Uomini affamati del femminil tubero che per accaparrarsi i like si affrettano a scrivere ovunque che “con le curve è meglio” e ragazzetti acidi che si scagliano contro l’uso dei leggings per coloro che superano la taglia 36. (Tra l’altro indovinate quale tra queste due categorie si becca più like femminili? Appunto.)
Victoria’s Secret che lancia la campagna “love your body” o che minchia era con le fotografie di certi pali della luce con le gambe da
gazzella che se becchi il manifesto mentre sei in premestruo al tuo corpo gli dai fuoco, altro che amarlo. E nel frattempo la mia home pullula di stato e link che inneggiano alle ciccette sballonzolanti che Mark Darcy tanto ama nella sua Bridget.

E nel frattempo io incasso, incasso, mi incazzo anche, ma non dico niente. Perché poi sono la solita polemica, perché non me ne va mai bene una, perché “ahahah quello che scrivi su Facebook mi fa morire dal ridere, ma insomma sei sempre incazzata!”. E chissenefrega.

Così la penso e così la dico: non c’è un solo lato di tutta questa faccenda che mi trovi concorde né con l’una né con l’altra parte. Non ho ancora capito perché nel pensiero comune non si concepisca la possibilità di esaltare o promuovere un pensiero senza necessariamente denigrarne un altro.
E se mi indigno tanto io, che non sono né nutrizionista né obesa né tantomeno anoressica, non oso immaginare le succitate categorie. O quantomeno, le persone con un cervello che appartengano a una delle tre categorie.

Ma la vogliamo smettere con questa superficialità? Sarebbe il momento di prendersi sul serio e chiamare le cose col loro nome: tanto l’anoressia quanto l’obesità sono MALATTIE, malattie vere, disturbi alimentari, e come tali non sono e non devono essere considerate salutari, né l’una né l’altra. Rendiamocene conto, miseria ladra. Giustificare l’obesità dichiarando poco sana l’anoressia è un po’ come dire che è meglio avere 32 º C di temperatura corporea piuttosto che la febbre: non ha senso.
A meno che, ovviamente, l’idea di morire d’infarto con le coronarie ripiene e l’impossibilità di camminare sulle proprie gambe non sia più allettante dell’ipotesi di schiattare con gli organi atrofizzati e l’incapacità proprio di reggercisi sulle proprie gambe.

Insomma, basta fare questa roba da sfigate di autogiustificarsi sui social network (sempre loro, maledetti) solo perché siamo incapaci di rinunciare al (cinquantesimo) cucchiaio di Nutella quotidiano.
Che nessuno mi fraintenda: non sto dicendo nel modo più assoluto che chi ha qualche chilo in più debba essere discriminato (a questo punto dovrei esserlo anch’io) e che non si possa essere belle e belli a prescindere dalla taglia dei propri vestiti. Dico solo che adesso che peso più di dieci chili meno di due anni fa sono decisamente più in forma, più in salute e ho un aspetto indiscutibilmente migliore. E che ancora, pur non puntando assolutamente all’anoressia, di strada da fare ne ho a volontà.

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Insomma, la mia idea è questa: se non vuoi essere discriminato, comincia a non discriminare. A tutti piace l’idea di essere in forma, non prendiamoci in giro. E ripeto e sottolineo: in forma, non attaccati a una flebo. E allora perché vantarsi davanti a tutti di non rinunciare a mangiare la carbonara, la Nutella, il triplo menù del McDonald’s ogni santissimo giorno?
Ragazze mie, poche storie: mangiare come maiali senza controllarsi non è mica un vanto. Denota scarso autocontrollo e anche pigrizia, se vogliamo dirla tutta. Vantarsi delle proprie cattive abitudini non attira la stima altrui, né tantomeno quella vostra per voi stesse.

Anche perché poi fossero fatte decentemente queste campagne pubblicitarie curvy&proud! Cioè, fatemi capire, volete combattere lo stereotipo della Barbie senza un filo di grasso fotoshoppando le foto di ragazze in sovrappeso di 30 kili che sembrano MIRACOLOSAMENTE non avere un filo di cellulite e/o pelle a buccia d’arancia? Ma non prediamoci in giro!
Le care modelle over-size di Elena Mirò, con le loro floride 48 e 50, sono alte un minimo di 180 cm: vi pare l’altezza media femminile? Sfido io ad essere slanciata, se i tuoi 90 kili sono distribuiti tra 185 cm di corpo e un paio di zizze degne di una produzione industriale di latticini.

La presa di coscienza è indubbiamente necessaria, ma non così. Se proprio vogliamo promuovere la bellezza naturale facciamolo, sono la prima a sostenere la causa, ma non è questo il modo.
Se vogliamo essere oneste con noi stesse, trattarci bene, migliorarci non ci resta che farlo!

Impariamo che il cioccolato non è il demonio, ma l’insalata nemmeno. Che troppo sale fa male, e che abituarsi a mangiare un po’ meno sapido val bene un infarto evitato. Che anche se abbiamo la fortuna di mangiare come dei bisonti e non ingrassare ciò non significa che possiamo o dobbiamo farlo, che le malattie non guardano in faccia a nessuno, neppure – pensa te – al nostro metabolismo degno di Flash.
E che se non abbiamo problemi adesso non significa che non ne avremo in futuro.

E d’altro canto, facciamoci entrare in quelle testoline avariate che i fondoschiena hanno tante forme diverse, che avere il bacino largo non è brutto e non è una colpa, che averlo tonico di natura è un gran culo (ahahah) ma che anche ottenerlo facendo squat è una soddisfazione mica da poco. Che avere le tette piccole non è brutto e che averle grandi non significa per forza essere sexy (mi tiro la zappa sui piedi da sola) e non significa neppure che abbiamo necessariamente un futuro da pornostar o una passione per l’ornitologia.

Insomma, raga, basta scuse. Smettiamola di dire con i social network quello che in realtà non pensiamo solo per avere un alibi, che non giova a nessuno.

E anche voi, fashion blogger delle mie Dr. Martens spellate, smettetela immediatamente di postare tutte quelle foto di barche di sushi, bomboloni alla crema e Nutella e Oreo e patatine e hamburger declinati in tutte le loro forme: non siete credibili e fate solo salire il crimine. Anche perché vedendovi instagrammare ogni giorno tutto quel ben di Dio e due secondi dopo i vostri bacini concavi con la descrizione “qui si ciccioneggia”, mi viene da pensare solo a tre possibili soluzioni: 1) avete il verme solitario, 2) fate un solo pasto al giorno, 3) avete un team di addetti a mangiare tutte le cagate che postate e lasciate lì nel piatto, tutti obesi o tutti sportivi agonistici. E in tutti e tre i possibili casi: vaffanculo.

Patience – ovvero raggio di sole

Patience – ovvero raggio di sole

Non so quanto sia necessario specificare, ma lo faccio:
riporto un incontro che mi ha particolarmente colpita.
Capisco che non sia una delle mie solite “simpatiche” invettive e/o pippe mentali,
ma ci tenevo a riportarlo.
Sperando che possa servire a qualcosa.

Mentre il tipo con cui sei (tuo marito? zio? amico?) sta cambiando gli spiccioli con una banconota, iniziamo finalmente a capirci per bene. Per fortuna ti ho dato quella risposta in inglese, altrimenti non avremmo mai realizzato di poterci capire così facilmente. E adesso mi sorridi con le tue labbra di cioccolato, mi ringrazi perché sono così gentile NONOSTANTE tu sia nigeriana. Odio abitare in un paese in cui, nel 2015, si possa pensare ancora che avere la pelle scura sia un “nonostante”.
Inserisco la tua tessera sanitaria nella macchinetta delle sigarette, ti chiedo il permesso di leggere il tuo nome: Patience.
“Hai un nome bellissimo”, ti dico.
“Come dire “pazienza”” puntualizzi tu.
Credo ti si addica, sai? Ora finalmente lui è tornato e potete comprare queste diamine di sigarette. Vi aiuto, e finalmente ce la facciamo. E tu ne sei felice, veramente tanto, e mi abbracci e mi dai un bacio e io ricambio. Continui a dire grazie, e grazie e ancora grazie perché sono stata gentile con voi, e nessuno lo è così. Mi chiedi il numero di telefono per sentirmi qualche altra volta, ma io rifiuto di dartelo, solo perché ci conosciamo da poco.
“Be a good girl” mi raccomandi, andando via.
E io, a un giorno di distanza, mi mangio le mani. Perché anch’io avrei voluto sentirti ancora, avrei voluto diventare tua amica, convincerti che essere gentile col mio prossimo era il minimo che potessi fare.
E che sono stata maleducata, anzi, a non darti il mio numero, solo perché ero arrabbiata per i fatti miei, con un tizio idiota che con te non c’entra proprio niente.
Mi domando se mai ti rivedrò, per scusarmi, per ricambiare i tuoi abbracci col triplo del calore. Per diventare tua amica, per ringraziare te che della tua terra, la Nigeria, hai portato solo il calore degli abbracci.

E che non porti via niente a nessuno fintanto che sei qua, per quanto degli idioti possano dire il contrario.
Ti chiedo scusa e lancio un appello simbolico: ritrovatemi l’amica della mia tarda domenica sera, che voglio spiegarle che è stato il raggio di sole più luminoso di un’intera settimana.

Partenze e ripartenze

Partenze e ripartenze

AAA. Vi prego. È un appello accorato, accoratissimo: vi scongiuro. La prossima volta che mi viene la malaugurata idea di innamorarmi prendetemi a testate. Strappatemi l’apparato riproduttivo, spegnetemi la parte di cervello che controlla le emozioni, rendetemi istantaneamente una figa di 1.90 m in modo che possa innamorarmi di me stessa e mandare agevolmente a cagare la razza maschile.
Che poi già il solo fatto di essere nata donna mi ha dato in dotazione, fin dalla nascita, un pacchetto di problemi di natura più o meno fisica e/o psicologica, per non parlare di quelli di natura sociale, quando a questi si è aggiunto anche il rincoglionimento d’amore ho sfiorato la tragedia.

Voglio dire, ci sarà un motivo se la cara Dionne Warwick cantava “I’ll never fall in love again”. Cretina io che non l’ho ascoltata, quando era lì che mi ripeteva “What do you get when you fall in love?/ You only get lots of pain and sorrow/ so for at least until tomorrow/I’ll never fall in love again”.
Me l’aveva detto lei, bellina. Diceva anche che a baciare un ragazzo “you get enough germs to catch pneumonia” e perfino che “after you’ll do / he’ll never phone ya” ma io, atroce pirla che altro non sono, dopo anni di strenua resistenza ci sono cascata nuovamente.

Cervello bollito, autostima sotto i tacchi, palpitazioni e incapacità di fare la mossa giusta: questa volta, complice anche il fatto di essere fuori allenamento da tempo immemore, sono stata davvero messa KO.
Elisa si confessa, signori miei, apre il suo cuore spezzato e vi mette in guardia: là fuori è un mondo difficile se la misura del vostro ego non supera di gran lunga quella del vostro culo. Avendo deciso che gennaio del 2015 è un buon punto di RI(partenza), ho tirato un po’ di somme e sono giunta alla conclusione che ultimamente la mia proporzione inversa EGO-CULO pende pericolosamente dal lato del culo, e che è dunque ora di darci un taglio e riprendere a lavorare sodo (ahahah capita? Culo/sodo ahahah… no dai, fa niente) per ridurre le dimensioni culiche e pompare quelle dell’ego. [Parentesi: oggi, 6 gennaio, scorrendo la Home di Facebook vedo tutto il cioccolato che le squinzie più o meno fidanzate hanno ricevuto dai loro amori per l’Epifania. E per tornare al discorso “CULO”, tiro un sospiro di sollievo al pensiero che il mio si sia salvato perlomeno da questo stravizio. Singola, cicciona e felice (…)].

Proprio qualche giorno fa parlavo con un amico del fatto che, quando sei preso, tendi a perdere ogni sicurezza se ti trovi in compagnia della persona che desideri. Lui proponeva come possibile soluzione il flirt spudorato e corroborante con chi ti viene dietro, sfruttando l’effetto benefico del sentirsi figo/a tirandosela con un/a povero/a sventurato/a che magari vuole solo vederti come mamma t’ha fatto/a, ma non è detto che per questo si meriti di essere trattato come carne da macello.
Io, che pure sono politically correct fino allo sfinimento, non è che non ci abbia provato a seguire il suo consiglio, tra l’altro senza grosse difficoltà: volente o nolente, da quando sono rincoglionita dall’attrazione (innamorata non riesco a dirlo), ho iniziato a fregarmene di tutti gli ex, gli ex frequentanti e tutti i generi di figure maschili con cui ho avuto a che fare in passato.
E quelli, diligenti, sentendosi ignorati sono tutti tornati a Canossa a comunicarmi quanto valessi, quanto fossi intelligente, simpatica, bella, grandegrandegrande che manco Mina, sexy-che-Pamela-Anderson-me-fa-na-pippa e sicuramente sprecata per lo stronzo per cui stavo soffrendo. Certo raga, certo. Tutti un po’ fuori tempo massimo ma apprezziamo lo sforzo.

Che poi non dico che non mi faccia piacere sapere di essere apprezzata da altri, ci mancherebbe.
Certo, ho il vago sospetto che due su tre dei miei sedicenti fan siano in realtà fedeli follower delle mie bocce, ma anche così non mi lamento.

Il problema – attenzione attenzione che adesso arriva il momento serietà – è che più cresco e più mi cadono le braccia al pensiero di avere un’autostima più intermittente di una lampada stroboscopica.
Non può davvero essere possibile che io sia cicciona a Lecce e normale a Pavia, o figa a Londra e cessa a Siviglia, intelligente nel mio paese dal nome impronunciabile e scema a Dubai. Vabbè che a ciascun contesto va attribuito un diverso parametro di giudizio, ma io esagero proprio tanto.

E quindi cosa ho deciso di fare per far partire questo 2015 col giusto sprint? Un emerito pene. L’Elisa del 6 gennaio 2015 non è nel modo più assoluto una donna una donna più matura della ragazzina che era il 30 dicembre 2014, e questo nessuno me lo leva dalla testa. Ma il lato positivo è che, in qualsiasi istante della mia vita, ho sempre due possibilità: fare ciò che è giusto o ciò che è facile.
Ogni volta che sceglierò di fare ciò che è giusto, sarò un passo più avanti alla ragazzina che sono ora. Ogni rigo di Quintiliano che prevarrà su di una puntatina ai social sarà un milligrammo di autostima guadagnata.
Perciò ho deciso di tentare un nuovo approccio, se voglio migliorare la mia autostima: semplicemente, smetterò di pensare che non ho abbastanza autostima. Proverò a non darmene il tempo.

Perché a furia di pensare a ciò che non va in me non faccio altro che deprimermi e perdere punti anche nella vita reale. E invece ogni volta che vado a correre, che faccio zumba, che do un esame con successo, mi prende un’euforia genuina che mi fa sentire la creatura più amabile del mondo. Quella è l’Elisa che amo, e quella è la persona con cui passerò tutta la mia vita.

E comunque, nota positiva: sono a Siena, ospite di una delle poche persone con cui sono amica letteralmente da una vita. Ho trovato qui da lei una nostra foto fatta in una cabina credo a 12-13 anni. Dietro c’è una scritta fatta con la mia grafia: “ti amo di bene”. I puntini sulle “i” sono pallini. Ecco. Volevo dire a me stessa che se sono riuscita ad uscire con successo da quella fase posso affrontare veramente tutto.

Cari Babbi Natale

Cari Babbi Natale

Gingol bels, gingol bels, gingol ol de uei… sarà che Natale è tra poco più di una settimana, ma a me sembra che ogni anno si sforzi di arrivare sempre più veloce, quasi in scivolata, e che ormai da un po’ non abbia la buona creanza di farmi abituare al suo arrivo con calma e ragionevolezza.

Ogni tanto, camminando molto, mi capita di far caso a un odore nell’aria, a uno scampolo di stoffa, a una nota musicale che mi riportano ai Natali di quando ero piccolina, quando andavo a scuola dalle suore e l’arrivo dell’Avvento era sinonimo di canti, di decorazioni, di lavoretti e di giochi.
Mi mancano le recite scolastiche e un po’ rido e un po’ piango ripensando a quella volta in cui mi avevano fatto vestire da Madonnina e insieme all’angelo Gabriele avevamo cantato un duetto, ai bimbi di prima elementare sempre vestiti da angioletti che cantavano la ninna-nanna al bambinello, al giorno di Santa Lucia, giorno in cui allestivano le bancarelle proprio sulla strada della nostra scuola. E allora, in via del tutto eccezionale, la maestra durante la ricreazione portava una classe di 32 piccoli scatenati a comprare le caramelle gommose dalla bancarella di dolciumi.

io topo e babbo natale

E poi “Natale” (come qualsiasi altra festività), per i terun significa cibo a non finire, e in particolare per i Leccesi significa pittule alla Vigilia dell’Immacolata e a Natale, e i famosi e famigerati purceddhruzzi e cartiddhrate che si preparano durante l’Avvento e si mangiano per tutte le feste.
Ogni famiglia ha un suo rituale dei purceddhruzzi. Quello della mia, ad esempio, consisteva nel riunire tutte le donne di casa (nonna, mamma, zia Carla, io, mia sorella e le mie cugine) e impastare quei 4-5 chili di pallini di impasto profumatissimi che poi, una volta immersi nell’olio della frittura, impuzzolivano tutta la casa per giorni e forse settimane. A noi bimbe riservavano sempre un pezzetto di impasto, che ovviamente ci divertivamo a modellare nelle forme più improbabili e poi doveva essere inevitabilmente buttato. Nei giorni successivi, poi, mamma nonna e zia si riunivano per ricoprirli di miele, decorarli e dividerli nei vari vassoi (le salentine guantiere) da regalare a tutto il parentado e amici vari.
Che poi l’assurdità dei purceddhruzzi è proprio quella: ogni famiglia ne produce una quantità spropositata, colossale, abnorme, per regalarla tutti gli amici e i parenti che, a loro volta, hanno prodotto la medesima quantità di roba con lo stesso intento.
E se chiederete a qualcuno, a chiunque, il perché di questa tradizione probabilmente vi risponderanno che si fa per affetto e senso dell’ospitalità, ma la realtà è che c’è una spietata competizione tra chi fa i purceddhruzzi più buoni, le cartiddhrate più friabili, le rose più belle.

L’eventuale zia Oronzina (tutti i salentini ne hanno una, vera o acquisita) ha la sua ricetta segreta, la nonna Maria mette nell’impasto un goccio di liquore, la comare ‘Mmaculata li decora con le scagliette al cioccolato e tutto il nipotame è chiamato all’ardua sentenza (“Dì la verità, a zia, i purceddhruzzi miei sono i più buoni o no?”).
Ovviamente l’unico risultato che si ottiene ogni anno è l’aumento spropositato di peso dei poveri nipoti più o meno costretti a ingurgitare pantagrueliche porzioni di cibo rigorosamente fritto, ipercondito e immerso in ricche e burrose salse e salsine.
Difatti la terrona media è conscia del fatto che prima di Natale dovrà aver perso il doppio dei chili che deve perdere in vista dell’estate, per poi recuperarne un’abbondante decina durante le festività e continuare questo perverso gioco di perdita e ripresa fino alle vacanze di Pasqua, dopo le quali non sarà concessa l’ombra di uno sgarro fino alla temuta prova costume, alla quale arriverà in ogni caso meno soddisfatta del previsto.

Ma sto divagando, tanto per cambiare, e mi sto perdendo in inutili e dolci e grassi ricordi come le simpatiche vecchiette reduci del dopoguerra.
Dicono che a Natale siamo tutti più buoni e generosi, perciò mi sembra doveroso essere più buona col mio prossimo e scrivere qui, pubblicamente, una lista dei miei desideri nella speranza che gli altri siano così generosi da esaudirli.

Perché se ci pensate è anche un’opera di bene: bisogna dare agli altri la possibilità di fare un regalo che ci piaccia, per evitare loro la mortificazione di vederci sorridere con quei falsissimi sorrisi di plastica.
Bisogna restituire ai parenti la gioia di vederci scartare dei regali anziché limitarci a quel passaggio di bustarelle piatte con dentro le banconote importanti che hanno sempre un che di mafioso.

E basta con tutte queste sdolcinatezze, questi buoni sentimenti, queste dichiarazioni che grondano miele e questi “All I want for Christmas is you”: con buona pace di Mariah Carey e Michael Bublé quest’anno faccio anch’io la materialista e per l’amore ci sarà tempo e modo nella prossima vita.

Prendete quindi nota, amici, parenti e conoscenti: nel caso in cui voleste omaggiarmi di un gradito presente perché quando leggete le mie minchiate vi sentite più allegri, o perché la mia idiozia vi rende più sicuri della vostra intelligenza o semplicemente perché mi volete bene, ho stilato una breve lista dei miei desideri.
Vi pregherei di apprezzare il fatto che ce ne siano per tutti i gusti e per tutti i budget, e vi inviterei, se volete farmi e farvi cosa gradita, a fare altrettanto stilando le vostre liste personali e fornendomene una copia. Ma non perdiamoci in quisquilie e iniziamo, ordunque, a parlare di cose serie.

REGALI PER ELISA

  • Un costume da Babba Natala: giusto per partire dal frivolo-inutile. Non mi serve per perversi giochi erotici o qualcosa di simile, è solo che l’idea di averne uno risveglia l’adolescente scema che sonnecchia dentro di me, quella che ama tanto i telefilm americani con le festicciole a tema natalizio in cui ci si mettono i cerchietti con le corna da renna e minchiate simili. Non me ne frega nulla della qualità, prendetene uno di un tessuto che sembra cartone, che costi 10 € o anche meno e mi farete felice;
  • Una smartbox: altresì nota come la soluzione di viaggio di chi ha sempre le pezze al posteriore. Compratemene una a tema avventura, adrenalina o come minchia si chiama, la più economica in assoluto, e sarò una bimba gaudiosa. Unica condizione richiesta: che comprenda l’opzione “parapendio”. Capisco che già con questo regalo il prezzo aumenta e non di poco, ma sono magnanima e dunque fornisco altre opzioni;
  • Sciarpe, cappellini o guanti di lana spessa: li adoro e non ne avrò mai abbastanza. Più spessi e caldi sono e più li trovo belli. E ce ne sono per tutte le tasche;
  • Un tavolino basso e quadrato dell’IKEA: bianco, grazie. Mi serve per la stanzetta pavese e costa 5 €, quindi direi che non ci sono scuse. Se non vi va di incartarlo speditemelo a casa che la spedizione dovrebbe essere gratuita, e potete fare tutto via Internet. Ma dove la trovate un’altra che si accontenta come me;
  • Un assortimento di prodotti di bellezza: possibilmente della Kiko, ma concedo l’assoluta libertà nella scelta della marca. Al momento mi servono una crema idratante per il viso (un formato che duri più di due giorni), una maschera all’argilla, una crema idratante per il corpo, uno scrub per il viso, un fondotinta non eccessivamente chiaro, un correttore e qualsiasi altra cosa vi passi per la testa. Se voleste regalarmi tutti questi prodotti ve ne sarei eternamente grata, ma anche risparmiarmi la spesa di una o due cosucce non sarebbe male;
  • Qualsiasi utensile per la cucina che serva a preparare i dolci: carissimi amici, vi piace mangiare i dolci che preparo? So che la risposta è sì, perciò poche storie e regalatemi tasche da pasticciere professionali, una teglia piatta per i biscotti, stampi dalle forme particolari, tappetini per macarons, stampini per madeleines, termometri da cucina e ingredienti esotici che difficilmente riesco a reperire in Italia;
  • Dei calici da vino rosso: sì, ok, è un vezzo inutile, ma io e Ledia vogliamo bere il vino in bicchieri di classe e instagrammarli come se non ci fosse un domani, per sottolineare che in questa casa ogni tanto si prendono iniziative raffinate ed eleganti, e mica siamo uomini che girano mezzi nudi grattandosi le chiappe e dicendo parolacce. CHIARO?!?;
  • Un iPhone 5: mi pare evidente, papà, che questo invito non sia rivolto a tutti. Non che io voglia lanciare messaggi subliminali, papà, ma vedi, papà, vorrei un cellulare scelto da me, giusto per il gusto di averlo scelto proprio io, papà. Tra l’altro, papà, anche l’iPhone meno costoso ha il quadruplo della memoria del mio attuale Samsung. Se qualcuno, papà, volesse essere così generoso, papà, gliene sarei eternamente grata. E vorrei ricordare a tutti, senza motivo alcuno, che mio padre è il padre migliore del mondo;
  • Un assortimento di calzini, parigine, calzettoni, scaldamuscoli: per la corsa, per tutti i giorni, per andare a dormire con i piedi ricoperti da lana antistupro. Le calze non mi bastano mai e le perdo sempre, perciò, a meno che non siate dei perversi feticisti con intenzioni poco felici, andate da Calzedonia a fare scorta. La mia coinquilina finalmente non sarà più depredata dei suoi calzini giorno dopo giorno e ve ne sarà eternamente grata;
  • Una valigia per i viaggi di pochi giorni: la mia si è rotta e continuo a rubare quella della mia santa coinquilina. Vi pregherei di porre fine a questo scempio;
  • Dei completini intimi: non specifico la taglia perché mi pare ovvio che un regalo del genere sia riservato solo a persone con cui esiste un certo grado di confidenza, che dunque conoscono già le mie misure, e che i maniaci random sono cordialmente pregati di astenersi. Anche qui, stesso discorso dei calzini e del costume da Babba Natala: non ho strane fantasie, vorrei soltanto provare l’ebbrezza di indossare più spesso un intimo coordinato, ma mi sento troppo in colpa per dilapidare i guadagni delle ripetizioni facendo arricchire Tezenis e compagnia bella. Arricchiteli voi per me.

Ovviamente avrei mille altri desideri: cappottini, un pigiama carino e femminile, scarpe col tacco, borse e borsette, una macchina da scrivere, vecchi vinili di De André da esporre come preziose reliquie, un iPod o un aggeggio simile che mi faccia ascoltare la musica quando corro, un biglietto per andare in Interrail, un corso di albanese o spagnolo o francese… ma per un motivo o per un altro ho ritenuto giusto tenerli fuori dalla lista ufficiale.
Con un libro, infine, andrete sempre sul sicuro. Vi stupirò: sarà particolarmente apprezzato un libro che parli di letteratura latina. Ma se, invece, vi sognerete di mettermi tra le mani Federico Moccia o Fabio Volo, ne trarrò le dovute conseguenze e sarete sulla mia lista nera fino alla fine dei vostri giorni. E non ditemi che non vi avevo avvertiti, Babb(e)i.