Una nonna per amica

Una nonna per amica

Potrebbe sembrare insensato scriverti proprio qui, dove di certo non andrai a leggere di tua spontanea volontà.
So già però che qualcuno (e so anche chi sarà quel qualcuno), ti leggerà dalla prima all’ultima riga questo mio stupido post, e sono contenta di questo tramite, perché quando ho da comunicare tanto amore il modo migliore che ho per farlo è scriverlo e affidare le mie parole a qualcuno che le leggerà meglio di me.
Nonostante sia superfluo, lo dico lo stesso: questa specie di “privilegio” che ti sto dando dedicando un intero pezzo a te non significa che agli altri due, ma diciamo pure agli altri tre, io voglia meno bene. Ma è inutile negare che il legame che c’è tra me e te è speciale, che non è comune, e che se tu non ci fossi io non so cosa farei.

Cinquantanove anni di differenza. I primi ventun’anni della mia vita che corrispondono a poco più di un quarto della tua. Chissà quante ore di discorsi su ogni argomento esistente al mondo e le risate, i regali, i caffè in ghiaccio quando studio, il tuo affannarti a starmi dietro per farmi sentire una principessa, anche se io di principessa ho ben poco, e ogni volta che te lo dico ti saltano i nervi.

Qua a Pavia la mia stanza ti conosce bene: ha visto le tue foto, conosce i tuoi regali, ascolta le nostre conversazioni e credo sappia quante volte mi hai sentita piangere, raccontarti che forse non valevo così tanto, dirti che invece sapevo di valere ma non capivo come mettere a frutto le mie qualità. E tu sempre lì, sempre paziente, ad aiutarmi con le parole e con i fatti, a viziarmi, a sgridarmi senza farmi sentire un’idiota, ma aiutandomi a ragionare.
Mi manchi così tanto che a volte quasi non resisto alla tentazione (troppo da egoista) di chiamarti e chiederti di prendere un aereo e venire da me quattro o cinque giorni, a ristabilire gli equilibri, a dirmi che la perfezione la pretendo solo io da me, che non si deve sempre piacere a tutti, che se fallirò ancora e poi ancora e poi ancora non per questo i miei genitori smetteranno di amarmi e avere fiducia in me.
Mi manchi quando non so come vestirmi, perché quando tu o la mamma mi dite che sono vestita bene io mi fido e so di stare bene, e quando esco per strada lo penso io e lo pensano anche gli altri. Mi manca la vostra sincerità, che anche quando è scomoda non è mai fine a se stessa ma sempre tesa ad aiutarmi, mi manca sentirvi discutere tra voi e trovarvi sempre concordi nel modo di amarmi e farmi capire ogni volta che sì, ce la posso fare, e che in fondo qualcosa di buono ce l’ho anch’io.

Sembra strano, vero? Questa specie di amicizia con tanti anni di differenza. Eppure non saprei come altro definirla se non un’amicizia, perché nel mio piccolo anch’io cerco di aiutarti, ti sostengo quando arriva un dispiacere, cerco, per quanto posso, di non darti troppe incombenze, sento che a volte mi cerchi per parlare con qualcuno che ti capisca, e quando lo fai per me è sempre un orgoglio e un enorme piacere.

Siamo completamente diverse e totalmente uguali.

E tu rappresenti questo mix favoloso di contraddizioni che mi rassicurano e che io adoro. L’amore per l’eleganza di altri tempi e il sapermi consigliare anche sulle scarpe da ginnastica.
Il modo di parlare elegante e forbito e il dialetto quando ti arrabbi oppure scherzi.
Il fatto di credere nei valori di altri tempi senza chiuderti alle novità.
Il fatto di non scandalizzarti quando ti racconto di come si comportano i miei coetanei con le ragazze ma il credere fermamente nella galanteria.
E anche un po’ il rapporto con mia madre, tua figlia, che sembra fondato sulle discussioni e invece a ben vedere trabocca d’amore.
Ecco, voi mi avete insegnato questo: che l’amore non significa solo andare d’accordo, ma anche litigare senza smettere di ritrovarsi, a volte soccombere per il bene di un rapporto, andare oltre le incomprensioni.

E tu… tu sei la mia seconda mamma, sei la mia migliore amica, sei la mia forza e la mia confidente, sei quella persona a cui posso rivolgermi per qualsiasi cosa, una delle poche, oltre ai miei genitori, che non mi giudica ma mi capisce, che mi fa credere in me stessa quando tutto sembra perso.
Grazie nonna, davvero. Sei la mia quercia secolare con lo spirito di una ragazzina. Il mio porto sicuro dove potrò sempre tornare. Sei tutto ciò che una nonna fantastica dovrebbe essere e anche di più. Ti voglio bene nei tuoi pregi e nei tuoi difetti, anche se questi ultimi tendo a vederli molto meno dei primi. Meno male che ci sei.

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Due persone sbagliate

Due persone sbagliate

Scusate. Scusate scusate! 
Mi duole constatare che mi è partita la vena romantica
quindi propongo questo racconto
breve che scrissi un po’ di tempo fa.
Prometto che nel prossimo post tornerò
ad essere la solita rompiscatole che dice “minchia” ogni tre parole
e si lamenta di tutto e di tutti.
Per ora intristitevi anche voi con me!

 

Dopo quella sera, decisero che bastava. Tante volte si erano graffiati il cuore, avevano urlato che era l’ultima, si erano allontanati senza mai andarsene davvero.

Poi, in quel momento, presero la piena consapevolezza che era davvero il momento di dirsi addio.

E se lo dissero con calma, senza lacrime negli occhi, i cuori freddi come marmo.

Capirono che non era più un arrivederci.

Conobbero altra gente, cominciarono una nuova vita, si costruirono delle maschere diverse, si legarono ad altre persone.

Da quel giorno cercarono spesso lo sguardo dell’altro nella folla, da lontano si annusarono, un po’ si percepirono, arrivarono a sfiorarsi una volta, in una piazza affollata, ma non si riconobbero davvero.

Restò sempre il dubbio di aver incrociato una persona diversa, un’ombra di chi erano un tempo, le sembianze simili, i pensieri di un estraneo.

E seppero solo allora che non esistono persone giuste al momento sbagliato: al massimo, nel loro caso, c’erano state due persone sbagliate in tanti momenti terribilmente giusti.

I ritorni

I ritorni

Cinque giorni. Cinque intensi, bellissimi, sfiancanti, culturali, rivelatori giorni a Roma con i compagni di facoltà e alcuni professori che si arrampicavano come stambecchi laddove io non riuscivo a muovere un passo senza avere il fiatone. 

Ho visto mosaici che mi hanno fatto quasi commuovere fino alle lacrime per la loro bellezza, ho ascoltato interminabili spiegazioni a volte senza capire una cippa perché ero troppo concentrata sulla sete o il caldo che provavo.
Ho stretto il mio legame con due persone che già mi erano a cuore e ho costruito nuovi legami con chi fino al 23 era un esimio sconosciuto, e ora invece ha già capito quanto posso essere insopportabile.
Ho mangiato in ristoranti rigorosamente consigliati da TripAdvisor e ho recitato la poesia sulla storia delle scoregge in giro per le rovine di Ostia, con degli sconcertati docenti che mi sentivano declamare che Ciceron per ore intere chiacchierava col sedere. 
Ho saputo regolarmi abbastanza da non mandare in fumo i sacrifici delle ultime settimane, e ho scoperto che alla fine anziché acquistare chili ne avevo perso un altro. 
Ho riso fino alle lacrime, ho fatto delle battute divertenti ed altre squallide, mi sono spinta a chiedere, mentre eravamo in visita sul Palatino alla casa di Augusto “il gelato a che AuGusto lo vuoi?” e non sono stata linciata. 

Poi sono tornata, ieri notte. Il pullman ha lasciato un po’ di gente a Parma, poi ha fatto una seconda sosta al castello Visconteo dove ci ha salutati un altro po’ di gente, infine ha raggiunto il capolinea, la stazione ferroviaria, che si trova a 3 minuti di orologio da casa mia. 
Ad aspettarci c’erano proprio tutti: i genitori di Chiara, che ho salutato anch’io. I genitori di Alessandro, che ho intravisto ieri per la prima volta. C’erano alcuni fidanzati, un marito, qualche fratello o sorella, ora non saprei dire. E poi c’ero io, che ho raccolto il mio piccolo trolley e la borsa e mi sono incamminata verso casa.

Nel tragitto – che ho fatto durare il più a lungo possibile, perché pensare camminando è più bello – riflettevo. A me piace la mia indipendenza, per quanto non sia un’indipendenza totale dal momento che ancora non lavoro. Mi piace gestire i soldi che ho, mi piace decidere a che ora svegliarmi (o SE svegliarmi) e poi maledirmi quando pigreggio troppo. Mi piace decidere a che ora andare in piscina e cosa mangiare a pranzo. Adoro non dover dire per forza a qualcuno a che ora tornerò, e non dover chiedere il “permesso” per uscire da sola con un amico.

 
Solo che a volte sento che mi manca avere qualche rottura di palle di troppo, qualcuno che abbia me tra i suoi primi pensieri e che io ricambi. Qualcuno che non mi porti a pensare “oh no, di nuovo lui” quando vedo scritto il suo nome mentre è in arrivo una chiamata. Qualcuno a cui dare conto e ragione del perché dico che il tale amico è bellissimo e gli voglio bene. 

Che rottura! Io così, da single, ci sto più che bene, ci sto da Dio.
Secondo me, però, i ritorni sono fatti per essere condivisi.

SanValentinolafestadiognicretino checredediessereamatomapoirimanefregato

SanValentinolafestadiognicretino checredediessereamatomapoirimanefregato

È San Valentino da nemmeno un’ora e io già non ne posso più. Sì, ma non degli innamorati. Io proprio non sto reggendo la gente sui social network.

E una frase d’invettiva qua, e un “siete tutti cornuti” buttato là, e una maledizione a tutte le coppie che “non-stanno-insieme-per-amore-ma-per-copulare”, e l’immancabile “tanto vi lasciate”… come ogni anno, la lista è infinita. No eh, non prendetemi per bacchettona: nei giorni scorsi ho scherzato anch’io con i miei amici e ho scherzosamente pianificato il suicidio con un amico, non è che non sopporti lo scherzo.

Però mi chiedo: è poi necessario tutto questo astio? Non è l’invidia verso gli innamorati che ci porterà a trovare l’altra metà della mela! (Anzi, semmai coi musi lunghi che pianta certa gente ti spieghi come mai nessuno se la voglia pigliare sul groppone.)

Tutti i componenti della mia famiglia oggi festeggeranno San Valentino, io no. E sapete che vi dico? Io ne sono felice comunque. Tanto per dirne una, sono felice che mio padre e mia madre festeggeranno per l’ennesima volta il San Valentino insieme. Sono felice che anche mia sorella possa farlo.

E poi basta basta basta con questa storia della festa commerciale: e anche se fosse? Si festeggia mica qualcosa di brutto o immorale?

Sì, ok, sono la solita romanticona zitellona sognatrice. Eppure a me l’amore piace a prescindere, quindi oggi mi reciterò un po’ di lirica greca e mi regalerò del cioccolato Milka, che già così è un po’ amore.

E mi auguro che gli innamorati si bacino un sacco, che si diano mille baci e poi altri cento e poi altri mille, mi auguro che non si tradiscano, mi auguro che i timidi trovino oggi il coraggio di esprimere un po’ meglio i loro sentimenti, mi auguro che le donnine viziate trovino il diamante che sognano e che gli ometti non si limitino a regalare il perizoma sexy che fa più piacere a loro che all’amata.

Auguri ai miei amici, ai miei parenti e a tutti gli innamorati del mondo, che possano passare un San Valentino da scaldare il cuore! Tanto tanto ammore!

P.s.: Cupido, pezzo di deficiente, di te non mi sono dimenticata. Va bene San Valentino, va bene l’essere zitella, va bene tutto, ma la prossima volta fai un po’ più di attenzione con quelle minchia di frecce quando mi giri intorno!

Punti di vista

Punti di vista

Sembravano appiccicati per le labbra quei due, non si staccavano più. Accostò di nuovo le labbra alla sigaretta che gli avevano regalato e a quel lucore i capelli della ragazza sembrarono colorarsi di un rosso acceso, quasi ramato. Chissà come sarebbe andata a finire tra quei ragazzi, pensò, mentre lui tentava di far scivolare una mano lungo la schiena di lei, magari tentando di spostarsi verso posti più “esotici”. Lei si spostò dolcemente, con un movimento fluido. Perfino lui, da là dietro, poteva avvertire che lei stesse mentendo: non voleva spostarsi, ma se poi lui fosse stato uno di quelli che “vogliono solo quello”? Dieci punti in più per la ragazza.

Gli facevano tanta tenerezza, giovani e abbracciati, incuranti dei loro vent’anni e di tutti i pensieri di questo mondo. Aspirò nuovamente, e alla luce di quelle ceneri tremolanti vide che lui era ancora seduto, mentre ora lei, accucciata, poggiava la testa sulle sue gambe. Il ragazzo le accarezzava la guancia, ogni tanto chinava la testa e le dava un bacio, spostandole con dolcezza i capelli dal viso. Era un po’ goffo in quei movimenti, nonostante, a prima vista, sembrasse il più spavaldo dei due. Comunque, goffo o meno, era riuscito a tenere con nonchalance il braccio steso sul petto della ragazza. Rise, tossendo tra il fumo che aveva appena tirato fuori: dieci punti in più anche per lui. Poi si accorse che, messi così, schiacciavano inavvertitamente la rosa che avevano comprato proprio da lui, dieci minuti prima. Non ebbe cuore di arrabbiarsi: fosse stato per lui, in quel momento non sarebbe certo rimasto in giro a vendere rose alle coppiette tira-tardi. Si consolò pensando che almeno, rispetto a loro, un punto di vantaggio lo aveva: lui la sua Devi l’aveva sposata, Dio con lui era stato generoso. Quelle rose, per come la vedeva, sarebbero dovute essere tutte per lei, che aveva sempre il sorriso sulle labbra qualsiasi cosa succedesse. Gettò la sigaretta prima di fumare anche il filtrino, la schiacciò sotto al tacco per spegnerla e si passò una mano tra i capelli, sempre più striati d’argento. Lui vent’anni non ce li aveva più da almeno trent’anni, e poteva contare ognuno di quegli anni di differenza sui calli delle sue mani robuste.

Quando aveva la loro età non sognava di scappare dall’India, anzi, in realtà in serate come quelle non sognava proprio niente: si limitava ad accarezzare i capelli di Devi, mentre erano stesi nel prato dei genitori di lei. Alla luce della luna, i capelli nerissimi di sua moglie sembravano quasi un manto di seta bluastro, morbidi e lunghissimi, le arrivavano oltre la schiena. Non avevano le panchine di Milano a loro disposizione, e prima di potersi baciare con così tanta passione avevano dovuto aspettare parecchio tempo, ma anche così erano stati momenti speciali. Si asciugò una lacrima di gioia al pensiero del sorriso di sua moglie: almeno quello non compariva nella lista di ciò che la vita, o la fortuna, o chi per loro, gli aveva tolto, e a lui in tutta sincerità bastava.

Anche il sorriso di quella ragazza era luminoso, rideva di ogni stupidata che diceva quel tizio là, poi ogni tanto lo prendeva in giro e lui sembrava contrariarsi. A quel punto lui rimaneva imbronciato per un attimo, indeciso se crederle davvero e dispiacersi oppure cedere al bacio che lei tentava di offrirgli. Poi, immancabilmente, cedeva, e lei non si limitava mai a dargli solo un bacio: gli scompigliava i capelli, gli dava dei buffetti sulla pancia, accostava il naso al collo di lui e poi inspirava, per assaporare fino in fondo il suo profumo. Quella ragazza sembrava un terremoto, non restava un secondo seduta normalmente, si alzava in piedi, si sedeva sul bordo della panchina, poi sui di lui, poi si sporgeva e tentava di morderlo. Quando lui la prendeva in giro, senza mai perdere davvero il sorriso, faceva finta di scappare voltandogli le spalle e andando via. Allora si alzava anche lui, la abbracciava da dietro, le stringeva le braccia, poi abbassava la testa e le dava un bacio, le diceva “Scema, stavo scherzando!”. Continuavano a giocare scambiandosi i ruoli, senza rendersi conto che il tempo volava e lui, nascosto là dietro, li osservava ancora.

Non era un guardone, solo si beava della vista dei ragazzi giovani, e Milano ne era piena. Ne vedeva ogni giorno di coppiette, ormai avrebbe potuto riempirci un’enciclopedia con tutte le storie che aveva costruito su di loro. Lui in realtà sapeva già a prima vista riconoscere i tipi di coppia: avevano voglia a dirgli “è mia sorella” pur di non comprare le rose! Lui aveva tanta di quell’esperienza che ormai di loro sapeva vita, morte e miracoli solo gettando uno sguardo.

Sapeva quali coppie fossero sposate, quali fidanzate e quali legate solo da una forte attrazione fisica. Riconosceva una coppia litigiosa dal solo intreccio delle mani, individuava un marito premuroso dalla busta della spesa che reggeva per non far stancare la moglie e, sdegnato, si girava dall’altra parte quando vedeva qualche “galletto” che gettava sguardi alle altre mentre la malcapitata che gli era di fianco lo guardava con occhi innamorati.

Quei due, si disse, non esistevano come coppia se non da poco: i loro corpi non avevano ancora imparato ad incastrarsi ad arte, le loro anime non avevano avuto il tempo di smussarsi e sagomarsi seguendo il volere dell’altro e, lui lo sapeva per esperienza, in una coppia ci vuole anche questo: che ogni pezzo del puzzle faccia spazio all’incastro dell’altro mantenendo intatto il disegno, senza modificarsi tanto da perdere identità. E poi parlavano, parlavano e ridevano in continuazione, cercando di conoscersi meglio, ansiosi di andare avanti, non sapendo di vivere un momento unico ed irripetibile. Come sarebbero andati avanti e cosa avrebbero fatto di loro lui già lo sapeva, ma non ci teneva a raccontarglielo: non c’è gusto a leggere una storia di cui si sa già il finale.

Raccolse le rose, e sorridendo andò a vivere nella storia della coppia che discuteva sul bordo della fontana.

 

AAA compagno di viaggio cercasi

AAA compagno di viaggio cercasi

Sono fermamente convinta che “amore” sia quando non hai vergogna di mangiare un kebab alle cipolle prima di baciare il tuo uomo.

Credo che le coppie felici siano quelle in cui non si sente il bisogno di dichiararsi in ogni singolo momento i propri sentimenti: dal sorriso che ci si scambia la mattina, al “vaffanculo” che si grida la sera quando la giornata è andata male, le due parti di una coppia sperimentano una confidenza che non hanno e non avranno mai con nessun altro.

Stranamente, però, credo anche che “amore” sia quando hai cinquant’anni e vuoi essere bella per lui, nonostante lo sai, e lo sai davvero, che per lui saresti bella anche se pesassi un quintale di più.

Io vorrei davvero qualcuno con cui trovare questo delicato equilibrio, qualcuno con cui litigare con la consapevolezza che non stai spezzando ma costruendo, vorrei tenere la mano a qualcuno che mi sorregga a sua volta.

Lungi da me il fare la parte della femminuccia bisognosa di un uomo a coprirle le spalle: più evitano di fare i cavalieri senza macchia e senza paura e meno fastidio mi danno. Al massimo sono io che posso difenderli, dato che non ho paura nemmeno di vagolare per la città da sola alle quattro del mattino, in barba a tutti gli stupratori.

Io non ho la minima paura di ciò che terrorizza le altre. L’unica paura irrazionale che ho riguarda quel maiale di Rasputin di cui parlavano nel documentario sui Romanov. Vecchio porco.

Comunque, Rasputin a parte, non ho bisogno di un principe azzurro, quanto piuttosto di un compagno di viaggio. Ecco perché non sopporto quelli che fanno i gradassi chiamandomi “piccola”, “cucciola” o provando a darmi consigli su come gestire le minime cavolate: santo Dio, vivo a mille chilometri da casa mia e gestisco perfettamente un appartamento anche quando la mia coinquilina non c’è, di certo non ho bisogno di qualcuno che mi protegga.

Solo che, ecco, un reciproco aiuto non lo disdegnerei. Mi piacerebbe trovare qualcuno con cui partire in Interrail, ad esempio. Qualcuno con cui saltare su una jeep e fare un viaggio itinerante per tutta l’America del Sud, oppure in giro per i ranch del Texas. Qualcuno che mi rispondesse a tono quando sono nervosa e gli urlo contro senza motivo, qualcuno che mi costringesse a studiare quando un esame proprio non mi va giù.

Tutto questo, per me, è amore.

Linate

Linate

 

Piedi che vanno veloci, rotelle delle valigie che scricchiolano tra gli interstizi delle mattonelle (ma non potevano farci caso i costruttori? È un aeroporto!) e passano, passano e passano. Questa fiumana tutta uguale di persone sempre diverse. Mi chiedo come diavolo facciano le altre a camminare con i tacchi in aeroporto. Solo io sembro una barbona ogni volta che devo prendere l’aereo? Bè, dai, almeno oggi sono più carina.

Vestitini, ballerine, borse firmate. Perché tutte le donne di questo aeroporto sono magrissime e hanno gambe anoressiche tranne me? Giacche, cravatte, Rolex al polso, manco andassero al gran galà. Una famiglia inglese con 3, no 4 bambini bellissimi. Sono arrivati col papà, adesso salutano la mamma. La mamma dà un bacio appassionato al papà. Chissà perché ho l’impressione che non sia la mamma vera ma la compagna del papà. No, è la mamma, altrimenti sai che tristezza.

Io sono l’unica cretina che batte i tasti del pc, tutto intorno a me è vita.

Aeroporto: ritrovarsi. Baci, abbracci, nervosismo, litigi, carezze, persone che saltano in braccio ad altre persone che da stasera avranno l’ernia del disco. Chi aspetta l’amico, chi la mamma, chi il figlio. Io pure aspetto un’amica, ma nel caso mio è diverso: sono arrivata prima io e non c’era nessuno ad accogliermi. Meglio farle un cartello, così si sente proprio a casa.

“Sunhil? Ma dove sei finito? Credo che tu abbia sbagliato strada. Prova a passare da là, da qua, da destra, da sinistra.” Benissimo. Anche la tizia accanto a me aspetta qualcuno. Eppure sembra un relitto dimenticato da Dio.

“Sunhil!”. Un indiano in trench e occhialetto rettangolare si è materializzato davanti alle porte automatiche. Sorride, di un sorriso euforico, innamorato. Avanza davanti a me, la tipa lo avviluppa, si baciano, io mi sento l’Isola della Sfiga. “Quattro… mesi… senza… vederti… mmm… mmm” e si baciano, e fanno questo rumore di lingue innamorate che se potessi mi scaverei la fossa sotto i piedi e ci sparirei dentro senza troppi complimenti.

Tra quanto arriva la Fra? Un’ora, ancora un’ora. Qua dice che il suo aereo è atterrato. È atterrato? Un par de ciufoli! Sembro una demente con questo cartello tutto colorato in mano.

E poi finalmente arriva. Il cibo del Mac credo che sia più buono quando qualcuno mangia insieme a te. Perfino questo tugurio di aeroporto ha le sue attrattive in fondo. C’è Intimissimi, e quanto è bello quel vestito blu lo voglio, ma forse avrei bisogno di quelle calze tutte colorate di Yamamay, i gioielli Guess secondo me sono troppo grossolani, tu che ne pensi?

Signora, per quale motivo mi guardi male? Ma fammi, passare, deficiente, che stai camminando col passo di una lumaca paralitica.

E poi abbracci che anche se li guardi non ti fanno più sentire sola, facce grigie che non spaventano più e guarda quel tizio che brutto, l’ascensore non arriva, quella coppia si bacia e noi siamo due sfigate senza il ragazzo, ma in due fa ridere chissà perché. Il pullman è di là, dove usciamo? Da qua? No, da qua? Elisa, aspetta due secondi, usciamo da qua.

Dove lo metto il mio bagaglio? Io di qua, tu di là, il tizio ci aiuta, saliamo a bordo del pullman e Annina è già là, che ci fate qua? Ti ho mandato un messaggio ore fa, perché non hai risposto? Sediamoci dietro così siamo tutte vicine. Ciao Milano. Ciao.

Bittersweet

Bittersweet

Oggi posto una breve storia scritta da me, fatemi sapere cosa ne pensate!

Emanuele era vestito bene quel giorno, aveva una camicia celeste e un bel maglioncino blu. Da sotto i jeans spuntavano le scarpe scamosciate che piacevano a lei, quelle blu scuro.

Sembrava che fosse sempre il migliore della sua compagnia, eppure non aveva l’aria spocchiosa da primo della classe: semplicemente, si faceva amare. Aveva quel dono concesso a pochi, quello di trovarsi al centro dell’attenzione senza dare fastidio, di piacere a tutti e a tutte, di “rimorchiare” facilmente sapendo essere tenero e bastardo al tempo stesso.

Lei lo guardava, beata, avidamente, si nutriva dello sguardo di lui che la ignorava.

Al centro della sala, lui raccontava una delle sue solite barzellette, quelle che non facevano ridere se le raccontavano gli altri, ma se poi passavano dal suo filtro diventavano improvvisamente esilaranti.

Bè, magari le risate erano anche dovute ai litri di birra che stavano bevendo. Seduti su comodi divani i ragazzi si passavano di mano in mano enormi bottiglie di vodka, di rhum, di ogni alcolico possibile e immaginabile. Sembravano incuranti del valore dei mobili su cui erano svaccati e dei vestiti che indossavano: dal suo personale punto di vista, in quel momento tutti quei “figoni” sembravano un branco di scimmie in preda alle convulsioni, solo lui riusciva a distinguersi dalla massa. Con una fitta al cuore – ma poteva chiamarsi cuore? – vide che la ragazza ricciolina alla destra di Emanuele la pensava esattamente come lei. Proprio quella vestita da bambolina, col vestito di pizzo aderente e gli occhi enormi ed azzurri. Si avvicinava a lui, gli ballava attorno, rideva di ogni sua singola battuta e nel farlo risultava sempre maledettamente femminile ed affascinante.

Il ragazzo era perfettamente conscio del suo essere così attraente, e non faceva nulla per limitare le attenzioni che la ricciolina gli porgeva, anzi. Man mano che tracannava birra, si lanciava in balletti improvvisati nel centro della stanza, la trascinava a ballare con lui, con nonchalance le dava un buffetto sulla guancia o le scompigliava i capelli. Lo spettacolo durò finché lui non decise che aveva fatto abbastanza colpo: a quel punto afferrò una mano della ricciolina, con dolcezza iniziò a trascinarla lontano dal centro della stanza, mentre la ragazza si lasciava portare, continuando a ridacchiare con la sua risatina troppo… troppo perfetta perché lei potesse reggere quello spettacolo.

Carlotta non riuscì a trattenersi oltre: entrò dalla finestra incurante della festa che si svolgeva attorno a lei e percorse tutta la sala per trovarsi davanti a quei due. Emanuele stava accarezzando dolcemente il collo della ragazza, mentre con l’altro braccio le cingeva la vita e la avvicinava a sé.

“NOOO!” gridò Carlotta afferrandogli il polso di furia, ma la sua mano attraversò il braccio di lui senza sortire alcun effetto.

Nessuno sembrava averla sentita gridare, nessuno si curava di lei che si sentiva come intrappolata in una campana di vetro, perennemente costretta a rimanere in una realtà che non le apparteneva più, ma che era condannata a non lasciare per l’eternità.

Una lacrima più trasparente dei suoi occhi scivolò sulla sua guancia tonda, mentre i ragazzi si baciavano davanti a lei, che impotente strepitava e cercava di procurarsi un dolore fisico che non poteva più provare.

Aveva deciso di essere un fantasma solo per poter rimanere al fianco di lui, e adesso cosa le rimaneva? L’aveva dimenticata, e lei non poteva farci niente.

Rassegnata, uscì di nuovo a farsi inghiottire dalla notte, attraversata da una pioggia che non poteva più avvertire.