Dal letame nascono i fior

Dal letame nascono i fior

Credo che il mio amore per la lettura e le lettere in generale sia nato fin da subito.

I miei genitori non erano di quei megalomani esauriti che fanno imparare le tabelline ai bimbi delle materne per fargli fare i bulletti a scuola, ed io arrivai in prima elementare che ancora dovevo compiere sei anni e non sapevo scrivere nemmeno il mio nome.

Quando sentivo usare parole come “maiuscolo” e “minuscolo” mi sembravano termini tecnici, scientifici, e mi sentivo improvvisamente importante se potevo occuparmi di faccende così grosse come l’alfabeto. Eppure io e le parole trovammo immediatamente un feeling speciale: tutti i miei compagni, specie quelli che erano arrivati già con qualche “marcia in più”, arrancavano nella lettura come su una ripida salita, invece io mi divertivo da morire a leggere e scrivere tutti quegli strani segni. Delle lettere che la maestra aveva attaccato in classe quella che più mi piaceva copiare era la S, perché sul cartello c’era scritto “S come Salame”, ed io già da piccola ero una golosona.

Ogni giorno tartassavo la mamma di domande “Mamma che vuol dire ‘contemporaneamente’?”, “Mamma che significa ‘non me ne frega niente’?”, “Mamma, cos’è un casolare?”. E poi quando la mamma mi portava in piscina, o dalla nonna, o a giocare con le cuginette, al passaggio in macchina tentavo sempre di leggere le scritte, i cartelli, le insegne dei negozi. La nonna Doretta una volta, in macchina con noi, si meravigliò di questa mia mania, ma mia mamma la rassicurò: anche lei, quando aveva imparato a leggere, aveva avuto questa smania di farlo ovunque andasse.

Infine, stranezza ancora più grossa, non leggevo staccando le sillabe come tutti gli altri bambini, ma fin dalle prime volte leggevo speditamente e anche con un’intonazione niente male. Tra i bambini del catechismo ero la più brava a leggere, mi chiedevano sempre di farlo in Chiesa, e quando ero chierichetta le vecchie signore impazzivano per me: come leggeva Elisa le laudi mattutine, nessuno lo faceva.

La suora ogni giorno ci raccomandava di leggere quattro, cinque o anche sei volte i brani che ci assegnava per il giorno dopo, e di leggerli ad alta voce, perché solo così avremmo imparato a leggere per bene. Io tornavo a casa e leggevo una sola volta, non avevo alcun bisogno di leggere ad alta voce, seguivo benissimo il filo del discorso nella mia testa e senza tenere il segno col ditino, e la mamma mi chiedeva sempre “Sicura che basti fare questo? Non hai bisogno di rileggere?”, ma io rispondevo che così mi andava bene. Poi sfogliavo il libro e leggevo tutti gli altri brani, per una mia curiosità, mica perché fossi secchiona.

Quando il giorno dopo mi veniva chiesto di leggere ed ero la più brava, venivo portata ad esempio davanti agli altri compagni: “Vedete Elisa, com’è brava? Potete esserlo anche voi! Elisa, dì ai tuoi compagni quante volte hai letto a casa questo brano per essere così brava!”.

Io abbozzavo, non riuscivo a dire una bugia completa, sono sempre stata una persona onesta (a volte anche troppo), e alla mia adorata maestra non potevo dire che mi impegnavo pochissimo per ottenere quei risultati straordinari.

Una volta, a furia di sentire la solita tiritera su quanto fosse importante esercitarsi molto a casa, la mia coscienza iniziò a tartassarmi e a comunicarmi che non si sarebbe calmata finché non avessi fatto anch’io tutti gli sforzi che facevano i miei coetanei.

Tornai a casa e iniziai a fare i compiti: dovevamo leggere un brano che parlava di una bambola di porcellana, era un testo molto breve, non mi costava nulla rileggerlo. Allora lo lessi una, due, tre… sei, sette, otto volte. Lo rilessi talmente tanto che quasi lo imparai a memoria, e finalmente mi sentii a posto con la mia coscienza.

Il giorno dopo ero orgogliosissima, e quando la maestra chiese alla classe se qualcuno voleva leggere, alzai la mano con tanta insistenza da convincerla a farmi leggere.

Fu un disastro totale: sapendo praticamente a memoria quello che stavo leggendo, il mio cervellino pensava automaticamente alle parole che dovevo leggere al posto di quelle che stavo leggendo, e mi inceppai una marea di volte. La suora mi guardò tristemente: perché avevo chiesto di leggere proprio quella volta in cui non mi ero esercitata abbastanza? Mi stavo cullando sugli allori? Credevo forse di essere diventata troppo brava per dedicarmi ad un’attività plebea come lo studio?

Mentre cercavo di ricacciare le lacrime che mi pungevano gli occhi, mi chiedevo incredula come fosse successo, e mi ripromettevo che mai, mai e poi mai avrei rifatto lo stesso errore, perché evidentemente non era così che doveva andare per me.

Quell’esperienza, chissà perché, mi segnò talmente tanto che la ricordo ancora oggi con una tenerezza infinita. Eppure, non so in che strano modo, è anche un po’ merito di quell’episodio se la mia passione per le Lettere ha continuato a crescere in maniera esponenziale, perché mi fece capire che avevo una predisposizione naturale verso quelle materie, e che davvero le amavo.

Ancora oggi, a vent’anni suonati, se ci ripenso un po’ mi intristisco, ma poi il caro Ugo mi guarda dalla copertina di quel libricino, dove ogni suo sonetto in qualche modo mi rappresenta, e penso che in fondo anche quei piccoli incidenti mi abbiano portata a trovare la mia strada.

Nonostante il carico di lavoro, le batoste, qualche lezione noiosa e qualche piccola delusione oggi sono davvero felice, perché è tra le pagine dei libri che si trova la mia vita, e si sa, le poesie più belle nascono dal dolore.