Ad esempio a me piace il Sud

Ad esempio a me piace il Sud

Vacanze di Pasqua, Puglia. Sono stata in campagna con mio padre, il mio cane, mia sorella vera, mia sorella Jappa e le mie cugine.

E poi mi sono accasciata sul divano a vegetare, ma è arrivato Giacomo con la sua dannata macchina e un pacchetto di sigarette. È entrato in casa e ha salutato tutti, ha evitato il cane che come al solito voleva copulare con la sua gamba e, incurante delle mie proteste, mi ha sollevata di peso e mi ha ordinato di darmi una sistemata che dovevamo uscire. Uscire? Tsè, non ha capito una beneamata minchia. O forse sono io a non aver capito.

In cinque minuti sono pronta e partiamo, quaranta chilometri per parlare di cazzate e raccontargli delle mie ultime sventure. E poi neanche siamo arrivati e già dobbiamo tornare a Lecce.

Abbassiamo i finestrini e fumiamo, la musica a palla, Max Gazzè urla “FpoFa, domani ti regalerò una roFa…” e noi cantiamo con lui. Il vento ci scompiglia i capelli, o per meglio dire le zazzere che abbiamo tutti e due. Il tramonto salentino è caldo. Le gole bruciano, perché cantiamo a squarciagola o perché fumiamo, non lo so. E poi ridiamo, ridiamo tantissimo.

Sentiamo una cover di “The scientist” dei Coldplay, una molto più ritmata, cantiamo insieme e ci emozioniamo insieme, ma ciascuno per fatti suoi. E io penso che davvero, ci sono poche cose al mondo più belle di questa: il mio amico, una macchina che corre, la musica ad alto volume, la mia terra bellissima.

Strano come una stupidaggine del genere possa diventare un ricordo che toglie il fiato per la sua bellezza.

Eppure a me, del Salento, manca proprio quello: le banalità. Mi manca non poter fare una cazzata senza temere che il giorno dopo lo sappia tutta la città, mi manca uscire con una persona e poi aggregarmi a trenta gruppi diversi in piazzetta Santa Chiara, mi mancano i ragazzi che considerano normale offrire il caffè alle ragazze.

Mi manca poter dire “stasera prendiamo la macchina e andiamo a San Cataldo, sulla spiaggia, a riempirci i vestiti di sabbia”. E magari a baciarci, con le labbra secche di salsedine.

Mi mancano quelle dannate vecchiette sedute sul ciglio della strada, che ti guardano male anche se stai salvando l’umanità davanti ai loro occhi.

Mi manca passare da San Lazzaro e trovare sempre qualcuno, mi manca fare l’animatrice al campo Grest, mi manca andare al Convitto e trovare tutti i fattoni.

Mi manca promettere un caffè a venti persone e riuscire ad organizzarmi, effettivamente, per prenderne due in venti giorni.

Mi manca papà che viene in camera mia col bicchiere di spremuta d’arancia e mi sveglia dandomi un bacino, ed io puntualmente lo mando a quel paese e lui poi, una volta al mese, perde la pazienza e mi manda non si dice dove.

Mi manca la pizza al metro di Maccheroni, che tutti sanno che se ordini 25 cm è pari ad una pizza normale ma ogni volta sei indeciso su quanti centimetri ordinare e quanti gusti combinare, e poi tutto il tavolo è occupato da quei vassoi lunghissimi e se sei nano come me a stenti riesci a vedere chi ti sta seduto davanti.

Mi manca tornare dal mare rossa come un pomodoro, con quel senso di stanchezza che puoi provare pienamente solo dopo una giornata al mare, quando hai tutta la pelle secca per colpa di quella salsedine della minchia e non vedi l’ora di tornare a casa e fare la doccia.

Mi manca Ciccio che viene a prendermi da casa con la macchinina e mi scarrozza per tutto il Salento, e mi manca quella sera in cui io saltai sulla sua schiena ed Eugenia saltò sulla schiena di Dario, e poi i ragazzi fecero a gara a chi faceva più strada senza stancarsi.

Mi mancano le cene con i parenti, a casa nostra quando apriamo l’ombrellone in giardino, o a casa della nonna Doretta quando tutti noi nipoti siamo tornati per le vacanze e si mangia e si ride, o anche a casa dei nonni, dove per essere ammesso devi essere elegante come un damerino.

Mi manca uscire con Ea per una passeggiata in centro e doverci fermare ogni due metri perché uno dei due ha visto qualcuno che conosciamo. E poi i discorsi non riusciamo mai a finirli, e ogni volta alla fine diciamo “ci aggiorniamo in un altro momento”, e quando torniamo su ci chiamiamo su Skype alle 3 di notte per raccontarci ciò che non ci siamo detti dal vivo.

Mi mancano gli ulivi che vedi nelle strade di campagna, quelli tutti storti che si avvitano su se stessi, su cui io non so ancora arrampicarmi e la mia prozia di ottant’anni invece sì.

Mi manca camminare per le strade del centro storico con mia sorella e ridere dei passanti che si girano a guardare, e mi manca che gli apprezzamenti siano tutti in dialetto e qualche volta senti qualcuno che si lascia scappare un “Gesummaria!”. Che poi, secondo me, “Gesummaria” si dice solo a Lecce.

Mi mancano le serate con Irene, mi mancano le passeggiate filosofiche con Giorgio, mi manca il Mc Donald’s con Reisa e i caffè con Simone, Sharon, Panz e Cate, che poi finisce che mi prendono sempre in giro e in certi momenti ci sarebbe solo da prenderli a testate.

Mi mancano i pomeriggi con Laura e Virginia, e a volte c’era anche Valeria e due anni fa anche Maika, e poi a metà pomeriggio per avere più energia e studiare meglio io e Virginia ci mettevamo a preparare ogni volta un dolce diverso, e poi la sera tornavano a casa i genitori di Laura e volevano anche loro una fetta di torta.

Mi manca fare capolino al locale della mamma, con la zia che mi dice parole d’amore, mia madre che mi urla dietro e Willy che un po’ mi abbraccia fino a sollevarmi da terra e un po’ mi insulta, e io lo insulto e basta.

Non che Pavia non sia bella, per carità. E sì, qui ho legato con tantissime persone, che sono insostituibili e già mi viene il magone solo al pensiero che un giorno potrei non vederle più.

È solo che la palude che c’è qua intorno non potrà mai sostituire il caldo torrido della mia Lecce, quello che ti fa stare svaccata in macchina con i finestrini aperti e ti fa sudare anche con l’aria condizionata.

E il caffè in ghiaccio che preparo nella mia cucina non sarà mai buono come quello di Gallipoli, con dentro il latte di mandorla che di per sé mi farebbe schifo ma quando è abbinato al caffè e alla mano esperta di un barista gallipolino mi fa girare la testa.

Però capisco che sia un abbinamento inusuale, e forse ad alcuni potrà non piacere. D’altronde a ognuno di noi piacciono cose diverse: ad esempio, a me piace il Sud.

I ritorni

I ritorni

Cinque giorni. Cinque intensi, bellissimi, sfiancanti, culturali, rivelatori giorni a Roma con i compagni di facoltà e alcuni professori che si arrampicavano come stambecchi laddove io non riuscivo a muovere un passo senza avere il fiatone. 

Ho visto mosaici che mi hanno fatto quasi commuovere fino alle lacrime per la loro bellezza, ho ascoltato interminabili spiegazioni a volte senza capire una cippa perché ero troppo concentrata sulla sete o il caldo che provavo.
Ho stretto il mio legame con due persone che già mi erano a cuore e ho costruito nuovi legami con chi fino al 23 era un esimio sconosciuto, e ora invece ha già capito quanto posso essere insopportabile.
Ho mangiato in ristoranti rigorosamente consigliati da TripAdvisor e ho recitato la poesia sulla storia delle scoregge in giro per le rovine di Ostia, con degli sconcertati docenti che mi sentivano declamare che Ciceron per ore intere chiacchierava col sedere. 
Ho saputo regolarmi abbastanza da non mandare in fumo i sacrifici delle ultime settimane, e ho scoperto che alla fine anziché acquistare chili ne avevo perso un altro. 
Ho riso fino alle lacrime, ho fatto delle battute divertenti ed altre squallide, mi sono spinta a chiedere, mentre eravamo in visita sul Palatino alla casa di Augusto “il gelato a che AuGusto lo vuoi?” e non sono stata linciata. 

Poi sono tornata, ieri notte. Il pullman ha lasciato un po’ di gente a Parma, poi ha fatto una seconda sosta al castello Visconteo dove ci ha salutati un altro po’ di gente, infine ha raggiunto il capolinea, la stazione ferroviaria, che si trova a 3 minuti di orologio da casa mia. 
Ad aspettarci c’erano proprio tutti: i genitori di Chiara, che ho salutato anch’io. I genitori di Alessandro, che ho intravisto ieri per la prima volta. C’erano alcuni fidanzati, un marito, qualche fratello o sorella, ora non saprei dire. E poi c’ero io, che ho raccolto il mio piccolo trolley e la borsa e mi sono incamminata verso casa.

Nel tragitto – che ho fatto durare il più a lungo possibile, perché pensare camminando è più bello – riflettevo. A me piace la mia indipendenza, per quanto non sia un’indipendenza totale dal momento che ancora non lavoro. Mi piace gestire i soldi che ho, mi piace decidere a che ora svegliarmi (o SE svegliarmi) e poi maledirmi quando pigreggio troppo. Mi piace decidere a che ora andare in piscina e cosa mangiare a pranzo. Adoro non dover dire per forza a qualcuno a che ora tornerò, e non dover chiedere il “permesso” per uscire da sola con un amico.

 
Solo che a volte sento che mi manca avere qualche rottura di palle di troppo, qualcuno che abbia me tra i suoi primi pensieri e che io ricambi. Qualcuno che non mi porti a pensare “oh no, di nuovo lui” quando vedo scritto il suo nome mentre è in arrivo una chiamata. Qualcuno a cui dare conto e ragione del perché dico che il tale amico è bellissimo e gli voglio bene. 

Che rottura! Io così, da single, ci sto più che bene, ci sto da Dio.
Secondo me, però, i ritorni sono fatti per essere condivisi.

Due bracciate tra i ricordi

Due bracciate tra i ricordi

C’è un problema, quando studi fuori e torni a casa una volta ogni due o tre mesi.
E’ un problema che va oltre la nostalgia di casa, la mancanza dei tuoi genitori, il cavarsela da soli. 
Sì, perché quando torni l’aria di casa è la stessa.
I genitori ti vogliono ancora bene e ti abbracciano stretto stretto.
E col tempo impari a cavartela da sola.

Poi torni giù, dove sei cresciuta. E devi stare attenta a non camminare da sola, a non pensare troppo, perché le strade che conosci fin da quando sei nata diventano all’improvviso un campo minato di ricordi. 

Finché continui a vivere a casa non puoi scappare dai problemi: devi affrontarli. Devi continuare a incontrare per strada la stessa gente, e se ci hai litigato o chiarisci o smaltisci la rabbia per fatti tuoi, allora col tempo maturi e assimili. Ma quando vai via, quando per 10 mesi all’anno scordi completamente tutto ciò che è rimasto incompiuto, fare un tuffo nei ricordi ancora freschi può essere micidiale.

Oggi camminavo per strada e rivedevo, su ciascuno di quei metri quadrati, una piccola Elisa di tre, quattro, cinque anni prima.
Lì avevo incrociato quel tizio strano… e lì, invece? Lì abita l’amica a cui ero legatissima e che non sento da secoli… e là, oddio guarda, là quella mattina c’ero stata insieme a quello… però cavolo, qua l’altra volta per poco non mi investono quei deficienti. 

Sotto di me la strada che scorre, la mia testa invece ronza instancabile. La mia città che sotto la pioggia diventa un cimitero di ricordi, con molti dei quali non ho ancora fatto pace. 
Ci sono quelle persone con cui davvero non mi aspettavo che i rapporti si stringessero così tanto a distanza.
E poi ci sono quelle che credevo avrei avuto accanto in eterno, e invece non è stato così.

E’ un gioco perverso, quello dei ricordi. E se inizi a giocarci sotto la pioggia battente potresti anche rischiare di affogare.
Io, per quanto mi riguarda, cerco di dare due bracciate e tornare a riva.
Staccare la testa anche quando sono qui.

Tanto cosa cambia ormai?