Povera Patria

Povera Patria

Sono più di due decenni che il nostro Francuzzo nazionale ce la canta “Pooovera Paaatriaaa, schiacciata dagli abusi del poteeereee”.
Sono più di due decenni che fingiamo di essere d’accordo con lui e in realtà ce ne impippiamo altamente. Io, come voi, come la mia vicina di pianerottolo e come il tabacchiere che lavora qui dietro, perché se davvero non ce ne impippassimo a quest’ora ci saremmo svegliati già da tempo.

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DecAduto, decEduto, caduto… io direi più che altro Scaduto, se vogliamo prendere in considerazione l’età. Vorrei solo farvi presente che Berlu e la Fracci sono coetanei, e quest’ultima non balla già da qualche anno.
Oltretutto, paradossalmente, nel mondo ci ha dato più lustro una ballerina che un Presidente del Consiglio che abbiamo rieletto innumerevoli volte. Ma questo è un altro discorso, e non vorrei perdermi in considerazioni che non c’entrano con la questione di cui voglio discutere.

Sia ben chiaro che non sto parlando di politica, e non lo faccio per lavarmene le mani ma perché non ne ho la competenza. Se avete già letto qualche post qui sul blog avrete più o meno capito in che direzione vanno le mie poche e confuse idee riguardo alla politica, ma oggi, in questo post, non mi sto dichiarando né di destra né di sinistra né di centro.
Non nascondo di non sopportare Berlusconi, ma la mia RIPUGNANZA non riguarda tanto la sua politica quanto la sua moralità, che per quanto mi concerne più che dubbia è inesistente.

Tutto ciò premesso, temo che il problema dell’Italia non sia mai stato Silvio Berlusconi in sé.
Berlu non è Mussolini, non ha mai fatto una marcia su Roma e dubito che abbia mai fatto bere olio di ricino ai suoi oppositori. Se per anni e anni ha continuato a vincere il motivo è uno solo: l’hanno votato milioni di italiani, metà di loro vergognandosene e negandolo e l’altra metà ostentandolo fieramente e sventolando striscioni di incoraggiamento.

Ora, è più che ovvio che dopo la notizia di ieri sui vari social network si siano scatenati i commenti pro e contro Silvio. Dalle battute taglienti ai papiri lunghi 50 righe, nessuno ci ha risparmiato il proprio pensiero, condivisibile o meno che fosse. E giuro, gli unici che mi hanno mandato il sangue in aceto sono stati quelli che hanno scritto “Siete solo invidiosi perché lui si è fatto la Minetti, Belen e (*inserire la lunga lista di mignotte del Cavaliere*)”.

Allora. Partiamo con una semplice considerazione: sono più che sicura che, dietro adeguato compenso, Belen e la Minetti sarebbero venute a letto anche con me. Ciò visto e considerato armatevi di pazienza, riempite il porcellino di terracotta e una volta racimolata la somma armatevi di martello, raccogliete gli spiccioli e andate a soddisfare i vostri primitivi bisogni con le nobildonne di cui sopra. Fatto? Bene, ora che le vostre… menti sono sgombre, rispondetemi seriamente: credete davvero che per governare una Nazione sia importante il contenuto dei propri boxer?
Non bisognerebbe fare un po’ più caso al contenuto della TESTA di chi ci governa?

È precisamente questo che intendo quando dico che il problema dell’Italia non è Berlusconi ma gli italiani. Siamo (e mi includo anch’io, in quanto italiana) un popolo di pigri, un popolo di superficiali. A cosa ci siamo ridotti? Parliamo per dare aria alla bocca, per farci riempire di like sui social network, per mostrare a tutti quanto siamo fighi.
Il fatto che il Cavaliere sia ammirato per le sue imprese di letto non può e non deve stupire, se noi siamo i primi a curarci più dell’apparenza che di quello che siamo veramente.

Sono anni che ci preoccupiamo di più di quello che i nostri politici fanno in camera da letto che di quello che combinano in Parlamento. A noi fa comodo e a loro fa comodo, e di questo passo dalla me…lma non ci usciremo mai. Perché siamo pigri, perché ci piace parlare e fare i dotti, ci piace fare bella figura parlando della nostra presunta e specchiata moralità, ma quante volte mettiamo in atto quello che millantiamo?

Siamo la patria dell’arte, della cultura, della poesia, del cibo raffinato e della moda, ma questo continuerà ad essere vero anche nei secoli a venire se e solo se la smetteremo di cullarci sul nostro passato e cominceremo a pensare al nostro futuro.
Abbiamo uno dei migliori modelli di istruzione al mondo e paghiamo per ottenere i 100 alla maturità, al posto di restare col culo sulla sedia e impararle davvero quelle nozioni. Abbiamo un patrimonio artistico unico in tutto il globo e non facciamo pressoché nulla per preservarlo. Abbiamo la nostra lingua, l’italiano, plasmata da Dante e da Cavalcanti, e ci ostiniamo a usare l’imperfetto al posto del congiuntivo. Esportiamo i nostri prodotti perfino ai pinguini del Polo Sud ma non ci degniamo di imparare l’inglese come si deve per trattare con l’Estero.
I nostri politici non sono altro che lo specchio della nostra società, e fintanto che continueremo a dare così poco valore al nostro patrimonio culturale e alla nostra Nazione non possiamo aspettarci che siano loro a preservarli.

Forse, se ricominciassimo a dare più risalto alla nostra cultura, a non far scappare i nostri migliori cervelli ma a tenerceli stretti, se ricominciassimo ad apprezzare l’arte ed ingentilissimo la nostra natura di barbari materialisti, saremmo capaci anche di creare una classe di politici che ci rappresenti davvero e che soddisfi le nostre esigenze, sempre che sappiamo ancora quali sono.

Ad esempio a me piace il Sud

Ad esempio a me piace il Sud

Vacanze di Pasqua, Puglia. Sono stata in campagna con mio padre, il mio cane, mia sorella vera, mia sorella Jappa e le mie cugine.

E poi mi sono accasciata sul divano a vegetare, ma è arrivato Giacomo con la sua dannata macchina e un pacchetto di sigarette. È entrato in casa e ha salutato tutti, ha evitato il cane che come al solito voleva copulare con la sua gamba e, incurante delle mie proteste, mi ha sollevata di peso e mi ha ordinato di darmi una sistemata che dovevamo uscire. Uscire? Tsè, non ha capito una beneamata minchia. O forse sono io a non aver capito.

In cinque minuti sono pronta e partiamo, quaranta chilometri per parlare di cazzate e raccontargli delle mie ultime sventure. E poi neanche siamo arrivati e già dobbiamo tornare a Lecce.

Abbassiamo i finestrini e fumiamo, la musica a palla, Max Gazzè urla “FpoFa, domani ti regalerò una roFa…” e noi cantiamo con lui. Il vento ci scompiglia i capelli, o per meglio dire le zazzere che abbiamo tutti e due. Il tramonto salentino è caldo. Le gole bruciano, perché cantiamo a squarciagola o perché fumiamo, non lo so. E poi ridiamo, ridiamo tantissimo.

Sentiamo una cover di “The scientist” dei Coldplay, una molto più ritmata, cantiamo insieme e ci emozioniamo insieme, ma ciascuno per fatti suoi. E io penso che davvero, ci sono poche cose al mondo più belle di questa: il mio amico, una macchina che corre, la musica ad alto volume, la mia terra bellissima.

Strano come una stupidaggine del genere possa diventare un ricordo che toglie il fiato per la sua bellezza.

Eppure a me, del Salento, manca proprio quello: le banalità. Mi manca non poter fare una cazzata senza temere che il giorno dopo lo sappia tutta la città, mi manca uscire con una persona e poi aggregarmi a trenta gruppi diversi in piazzetta Santa Chiara, mi mancano i ragazzi che considerano normale offrire il caffè alle ragazze.

Mi manca poter dire “stasera prendiamo la macchina e andiamo a San Cataldo, sulla spiaggia, a riempirci i vestiti di sabbia”. E magari a baciarci, con le labbra secche di salsedine.

Mi mancano quelle dannate vecchiette sedute sul ciglio della strada, che ti guardano male anche se stai salvando l’umanità davanti ai loro occhi.

Mi manca passare da San Lazzaro e trovare sempre qualcuno, mi manca fare l’animatrice al campo Grest, mi manca andare al Convitto e trovare tutti i fattoni.

Mi manca promettere un caffè a venti persone e riuscire ad organizzarmi, effettivamente, per prenderne due in venti giorni.

Mi manca papà che viene in camera mia col bicchiere di spremuta d’arancia e mi sveglia dandomi un bacino, ed io puntualmente lo mando a quel paese e lui poi, una volta al mese, perde la pazienza e mi manda non si dice dove.

Mi manca la pizza al metro di Maccheroni, che tutti sanno che se ordini 25 cm è pari ad una pizza normale ma ogni volta sei indeciso su quanti centimetri ordinare e quanti gusti combinare, e poi tutto il tavolo è occupato da quei vassoi lunghissimi e se sei nano come me a stenti riesci a vedere chi ti sta seduto davanti.

Mi manca tornare dal mare rossa come un pomodoro, con quel senso di stanchezza che puoi provare pienamente solo dopo una giornata al mare, quando hai tutta la pelle secca per colpa di quella salsedine della minchia e non vedi l’ora di tornare a casa e fare la doccia.

Mi manca Ciccio che viene a prendermi da casa con la macchinina e mi scarrozza per tutto il Salento, e mi manca quella sera in cui io saltai sulla sua schiena ed Eugenia saltò sulla schiena di Dario, e poi i ragazzi fecero a gara a chi faceva più strada senza stancarsi.

Mi mancano le cene con i parenti, a casa nostra quando apriamo l’ombrellone in giardino, o a casa della nonna Doretta quando tutti noi nipoti siamo tornati per le vacanze e si mangia e si ride, o anche a casa dei nonni, dove per essere ammesso devi essere elegante come un damerino.

Mi manca uscire con Ea per una passeggiata in centro e doverci fermare ogni due metri perché uno dei due ha visto qualcuno che conosciamo. E poi i discorsi non riusciamo mai a finirli, e ogni volta alla fine diciamo “ci aggiorniamo in un altro momento”, e quando torniamo su ci chiamiamo su Skype alle 3 di notte per raccontarci ciò che non ci siamo detti dal vivo.

Mi mancano gli ulivi che vedi nelle strade di campagna, quelli tutti storti che si avvitano su se stessi, su cui io non so ancora arrampicarmi e la mia prozia di ottant’anni invece sì.

Mi manca camminare per le strade del centro storico con mia sorella e ridere dei passanti che si girano a guardare, e mi manca che gli apprezzamenti siano tutti in dialetto e qualche volta senti qualcuno che si lascia scappare un “Gesummaria!”. Che poi, secondo me, “Gesummaria” si dice solo a Lecce.

Mi mancano le serate con Irene, mi mancano le passeggiate filosofiche con Giorgio, mi manca il Mc Donald’s con Reisa e i caffè con Simone, Sharon, Panz e Cate, che poi finisce che mi prendono sempre in giro e in certi momenti ci sarebbe solo da prenderli a testate.

Mi mancano i pomeriggi con Laura e Virginia, e a volte c’era anche Valeria e due anni fa anche Maika, e poi a metà pomeriggio per avere più energia e studiare meglio io e Virginia ci mettevamo a preparare ogni volta un dolce diverso, e poi la sera tornavano a casa i genitori di Laura e volevano anche loro una fetta di torta.

Mi manca fare capolino al locale della mamma, con la zia che mi dice parole d’amore, mia madre che mi urla dietro e Willy che un po’ mi abbraccia fino a sollevarmi da terra e un po’ mi insulta, e io lo insulto e basta.

Non che Pavia non sia bella, per carità. E sì, qui ho legato con tantissime persone, che sono insostituibili e già mi viene il magone solo al pensiero che un giorno potrei non vederle più.

È solo che la palude che c’è qua intorno non potrà mai sostituire il caldo torrido della mia Lecce, quello che ti fa stare svaccata in macchina con i finestrini aperti e ti fa sudare anche con l’aria condizionata.

E il caffè in ghiaccio che preparo nella mia cucina non sarà mai buono come quello di Gallipoli, con dentro il latte di mandorla che di per sé mi farebbe schifo ma quando è abbinato al caffè e alla mano esperta di un barista gallipolino mi fa girare la testa.

Però capisco che sia un abbinamento inusuale, e forse ad alcuni potrà non piacere. D’altronde a ognuno di noi piacciono cose diverse: ad esempio, a me piace il Sud.