Domani

Domani

“Dove dobbiamo girare per arrivare a casa tua?
”Livia alza la voce per coprire il volume della radio e urla “A sinistra, laggiù, vedi? Dov’è il semaforo!”
Laura accelera, fa un giro mozzafiato con la macchina intorno alla rotonda, poi un altro, poi un altro ancora, sembra di essere capitati nella centrifuga di un’enorme lavatrice. Tutte ridono, tutte un po’ sbronze, e anche Livia ride. Qualcuna – forse Chiara, chi lo sa – propone di iscriversi tutte insieme in palestra dopo le vacanze. Tutte rispondono di sì, tutte sanno che non potranno mai farcela, ma in quel momento tutto suona convincente.

È tutto meraviglioso, tutto. Tutte insieme, tutte schiacciate in quel macinino che a rigor di logica nemmeno avrebbe l’autorizzazione di girare per le strade, ma chissenefrega, tanto va tutto bene e sono tutte amiche e ridono tutte ed è tutto bellissimo.
“Ferma, ferma è qui!”, ma Laura è già andata oltre e ora fa un’inversione a U e tutte ridono perché è andata bene e non è passata nessuna macchina. Sane e salve.

“Ci vediamo settimana prossima vero?” chiede Giulia. Livia si arrampica tenendosi al tettuccio per uscire dal minuscolo abitacolo della macchina. 
“No, settimana prossima sono a casa.” 
“Giusto… ok, allora tra due settimane, bella. Fai la brava a casa, mi raccomando!”.

E Livia ride di nuovo con malizia, ridono tutte, tutte le schioccano dei baci sonori sulle guance e Marta la stringe forte a sé e si salutano così prima di partire sgommando. Laura le accompagnerà tutte a casa, o almeno così spera Livia, perché con tutto quell’alcol in corpo sarà difficile che arrivino tutte a destinazione senza un graffio.

Cerca nervosamente le chiavi nella borsetta mentre il tizio che compra le sigarette dal distributore la scruta torvo. Neanche lui sembra essere del tutto in sé, e la cosa la inquieta, tanto più che quel benedetto mazzo di chiavi non salta fuori. No, eccolo, meno male, è proprio qui e ora cerca di centrare subito la toppa, ma la strada è completamente buia e l’uomo ha iniziato a fissare insistentemente la sua gonna. E poi finalmente la serratura scatta, e Livia entra nell’androne chiudendosi di tutta fretta il portone alle spalle. È al sicuro adesso.

Pigia il pulsante per chiamare l’ascensore, i tacchi la torturano e non può salire quattro piani di scale a piedi nudi. Le porte automatiche si aprono e lei entra. Allo specchio nota quanto l’eye-liner sia sbavato, della matita nera non è rimasto nulla se non una traccia sbiadita sotto il contorno dell’occhio sinistro. Dio, meno male che non ha notato nulla del genere mentre era in giro, altrimenti non sarebbe stata capace di parlare con nessuno sapendosi in quelle condizioni. Sotto al top attillato si intravede la pancetta alcolica, anche quella l’ha notata solo ora. Da domani dieta, no stavolta davvero.

Entra a casa in punta di piedi per non svegliare i coinquilini, si accascia sul letto, sfinita. Seduta sul bordo del letto sfila pian piano le scarpe: ormai i piedi hanno preso una forma strana, sembra che indossino ancora i tacchi. Si massaggia i talloni doloranti e getta uno sguardo verso la poltrona piena di vestiti spiegazzati. Domani dovrà mettere in ordine, porca miseria.

Sfila il vestito dalla testa mentre la prima lacrima della nottata fa capolino nell’angolo dell’occhio. Brucia terribilmente e lei la lascia cadere, tanto chi mai la vede?

Indossa il pigiama e va in bagno. Toglie le lenti, si strucca, mette gli occhiali da vista e raccoglie i lunghi capelli in uno chignon stretto in cima alla testa. Fissa il suo doppione allo specchio, che ha un viso gonfio e un’espressione malinconica. Faccione da bambina golosa di patatine. Che orrore. Lava i denti e butta i collant sporchi nel cesto della biancheria, tracimante di roba che chiede a gran voce di essere lavata al più presto, ma chi ne ha voglia? Domani, domani farà tutto.

Il letto non è molto invitante. Una leggera pioggerellina ha iniziato a cadere, senza dare alcun fastidio, piange silenziosamente come lei. E Livia decide che sarà bello piangere insieme alla pioggia, senza nessuno che la giudichi, che le chieda ancora una volta perché sta piangendo. In cucina c’è ancora metà della torta, il thè freddo è in frigo, le sigarette in borsa.

Improvvisa una sorta di vassoio, indossa una felpa pesante ed esce nel freddo della notte torinese.

Le lacrime scendono, lente, poi veloci, calde e salate. Le beve insieme al sorso di thè, la torta è piena di burro e di zuccheri, ma cosa importa, tanto da domani è a dieta.

Perché non riesce a volersi bene? Perché sospetta sempre che gli altri le siano accanto per compassione, che le sue amiche siano meglio di lei, che un giorno si stuferanno tutti di viverle accanto? Perché l’adolescenza non è stata lavata via dalla nuova vita, com’è successo a tutti quelli che conosce? I suoi complessi restano lì, come una macchia di sporco ostinato su un capo delicato, e lei non ce la fa più a sentirsi quel capo delicato.

Accende la sigaretta, inspira e quella sensazione di bruciarsi i polmoni, chissà perché, la consola. Tranquilla, che domani cambia tutto. Che poi lo sa che non sarà mai vero, ma ora sono le tre e mezza di notte e si può benissimo pensare così. Sì, domani non dovrà più fingere una sicurezza e una tranquillità che non le appartengono, perché da domani sarà davvero tranquilla e sicura. Da domani si iscriverà in palestra e al corso di teatro, ripeterà ogni materia ad alta voce, s’informerà concretamente per il viaggio di agosto, da domani sarà tutto più semplice. L’ultima boccata le brucia i polmoni, tossisce cercando invano di calmare gli spasmi con l’ultimo sorso di thè. Una finestra del palazzo di fronte s’illumina.

Un ragazzo apre le imposte, poggia i gomiti e si sporge in avanti per capire da dove provenga quel rumore. Ha i capelli ricci e gli occhi celesti, indossa un paio di occhialetti che da lontano sembrano essere neri, ma non è certa di averlo visto bene, d’altronde da quella distanza può anche aver solo immaginato il colore degli occhi. Torna velocemente dentro casa, chiude la tapparella e si rifugia tra le coperte ad immaginare la sua vita quando tutto sarà migliore.

Certo, però, quel ragazzo era carino davvero, anche al buio. Con quella camicia, poi… lei adora i ragazzi con la camicia. Spera che non l’abbia vista, così struccata e in pigiama, con una felpa di tre taglie più grande. E poi, anche vestita diversamente, non avrebbe alcuna speranza con uno così carino. Chissà da dove è tornato, a quell’ora di notte, così elegante…

 

Il ragazzo si chiama Enrico e ha ventitré anni. Studia Giurisprudenza ma è costretto a lavorare anche come cameriere per mantenersi lontano da casa. Ecco perché ogni notte torna tardi nel suo appartamento, e non è la prima volta che ha visto quella ragazza sul balcone. Gli sembra quasi che esca solo per piangere, ma magari è solo la sua immaginazione, cosa ne può sapere se riesce a vedere bene da quella distanza? Che sia bassina, però, è un dato di fatto. E ha i capelli lunghi, sempre legati in uno chignon stretto stretto. Chissà se l’ha mai notato, e chissà cos’ha pensato a vederlo sempre in ghingheri, con la camicia bianca e l’occhialetto figo.
Deve assolutamente trovare il modo di conoscerla e di capire perché pianga sempre. Magari potrebbe aiutarla, o condividere con lei le sue ansie di ogni giorno. I genitori lontani, l’esame di Commerciale e il lavoro, e la ragazza che adorava che l’ha appena lasciato.
Domani riuscirà a parlarle. Sì, domani ci riuscirà.

Bittersweet

Bittersweet

Oggi posto una breve storia scritta da me, fatemi sapere cosa ne pensate!

Emanuele era vestito bene quel giorno, aveva una camicia celeste e un bel maglioncino blu. Da sotto i jeans spuntavano le scarpe scamosciate che piacevano a lei, quelle blu scuro.

Sembrava che fosse sempre il migliore della sua compagnia, eppure non aveva l’aria spocchiosa da primo della classe: semplicemente, si faceva amare. Aveva quel dono concesso a pochi, quello di trovarsi al centro dell’attenzione senza dare fastidio, di piacere a tutti e a tutte, di “rimorchiare” facilmente sapendo essere tenero e bastardo al tempo stesso.

Lei lo guardava, beata, avidamente, si nutriva dello sguardo di lui che la ignorava.

Al centro della sala, lui raccontava una delle sue solite barzellette, quelle che non facevano ridere se le raccontavano gli altri, ma se poi passavano dal suo filtro diventavano improvvisamente esilaranti.

Bè, magari le risate erano anche dovute ai litri di birra che stavano bevendo. Seduti su comodi divani i ragazzi si passavano di mano in mano enormi bottiglie di vodka, di rhum, di ogni alcolico possibile e immaginabile. Sembravano incuranti del valore dei mobili su cui erano svaccati e dei vestiti che indossavano: dal suo personale punto di vista, in quel momento tutti quei “figoni” sembravano un branco di scimmie in preda alle convulsioni, solo lui riusciva a distinguersi dalla massa. Con una fitta al cuore – ma poteva chiamarsi cuore? – vide che la ragazza ricciolina alla destra di Emanuele la pensava esattamente come lei. Proprio quella vestita da bambolina, col vestito di pizzo aderente e gli occhi enormi ed azzurri. Si avvicinava a lui, gli ballava attorno, rideva di ogni sua singola battuta e nel farlo risultava sempre maledettamente femminile ed affascinante.

Il ragazzo era perfettamente conscio del suo essere così attraente, e non faceva nulla per limitare le attenzioni che la ricciolina gli porgeva, anzi. Man mano che tracannava birra, si lanciava in balletti improvvisati nel centro della stanza, la trascinava a ballare con lui, con nonchalance le dava un buffetto sulla guancia o le scompigliava i capelli. Lo spettacolo durò finché lui non decise che aveva fatto abbastanza colpo: a quel punto afferrò una mano della ricciolina, con dolcezza iniziò a trascinarla lontano dal centro della stanza, mentre la ragazza si lasciava portare, continuando a ridacchiare con la sua risatina troppo… troppo perfetta perché lei potesse reggere quello spettacolo.

Carlotta non riuscì a trattenersi oltre: entrò dalla finestra incurante della festa che si svolgeva attorno a lei e percorse tutta la sala per trovarsi davanti a quei due. Emanuele stava accarezzando dolcemente il collo della ragazza, mentre con l’altro braccio le cingeva la vita e la avvicinava a sé.

“NOOO!” gridò Carlotta afferrandogli il polso di furia, ma la sua mano attraversò il braccio di lui senza sortire alcun effetto.

Nessuno sembrava averla sentita gridare, nessuno si curava di lei che si sentiva come intrappolata in una campana di vetro, perennemente costretta a rimanere in una realtà che non le apparteneva più, ma che era condannata a non lasciare per l’eternità.

Una lacrima più trasparente dei suoi occhi scivolò sulla sua guancia tonda, mentre i ragazzi si baciavano davanti a lei, che impotente strepitava e cercava di procurarsi un dolore fisico che non poteva più provare.

Aveva deciso di essere un fantasma solo per poter rimanere al fianco di lui, e adesso cosa le rimaneva? L’aveva dimenticata, e lei non poteva farci niente.

Rassegnata, uscì di nuovo a farsi inghiottire dalla notte, attraversata da una pioggia che non poteva più avvertire.