SigaSTORTA

SigaSTORTA

Tra le tante stranezze che la vita mi ha elargito fin dal giorno della mia nascita ho anche questa: un rapporto ambivalente con le sigarette che credo sia iniziato quando ancora non sapevo neanche di preciso cosa fossero.

Avendo una mamma che ha sempre fumato, per quanto poco, per quanto raramente, per quanto fumasse solo “la sigaretta del dopo cena”, con l’odore di sigaretta ci ho convissuto fin da pargola. E mi piaceva annusarlo, tant’è vero che mi posizionavo davanti alla nuvoletta bianca che la mamma buttava fuori e inspiravo beata (“Elisa, togliti che il fumo ti fa male! E mi togli l’aria!”).

E poi quando ero piccina anche il nonno fumava, per non parlare dello zio: SmogLand. Ovviamente tutto ciò mi aveva portata a trarre la geniale conclusione che quando diventi grande iniziare a fumare è una tappa obbligata. Impazzivo per le borsette, ma non avevo nulla da metterci dentro quando mamma e papà ci portavano in giro, e così pensavo sempre “Quando crescerò non avrò più questo problema! Avrò un portafogli pieno di soldi, un cellulare e il pacchetto delle sigarette!”. Genio fin da piccola.

Poi sono arrivate le scuole medie, e con loro gli “incontri per sensibilizzare i giovani”, in cui mi hanno spiegato cosa significasse la parola “nicotina”e come e quanto la sigaretta faccia male. Ci hanno perfino disgustati a puntino con quelle sublimi immagini di polmoni incatramati e denti color palude. E a questo punto, ollè! Accanita attivista anti-fumo.
“Mamma, non fumare! Mamma ti fa male!”. (“Elisa, grazie, mi so regolare da sola”). Per un concorso in cui, per l’appunto, noi gggiovani dovevamo produrre uno slogan contro il fumo arrivai a disegnare un’enorme sigaretta antropomorfa fornita di una pistola, e sotto ci scrissi a caratteri cubitali “IL FUMO UCCIDE”.

Poi la malattia del nonno, e proprio ai polmoni. Il nonno si salva e smette di fumare. Bravo nonno! Poi la malattia della mamma, e lì le cose si fanno serie: io orfana a 12 anni non voglio esserlo, Dio se mi salvi la mamma ti prometto che non proverò mai a fumare!
Solo che l’odore del fumo e dello smog per me avevano più effetto di una boccetta di profumo Abercrombie per una quindicenne in piena tempesta ormonale: inebriante. I miei compagni provano a fumare e io faccio la bacchettona (non solo ero secchia, ero pure brava ragazza fino al midollo). Giustamente (o forse no), le prese in giro si sprecano. (“Ma che cavolo ne capite voi, io non voglio provare a fumare perché amo mia mamma!”).

Poi arriva l’adolescenza: io odio il fumo, giuro lo odio, ma la sigaretta quanto fa figo! E no, per me non faceva figo perché gli altri fumavano, non perché fosse un segno distintivo dei più grandi, non perché a farti le foto con la sigaretta sembravi trasgressiva.
No no, la donna con la sigaretta tra le dita affusolate, nella mia testa, emanava un sex appeal che io non avrei mai potuto avere. Il ragazzo che fumava non ne parliamo, se poi aveva il giubbotto di pelle scattava immediato l’innamoramento e l’ormone in subbuglio.

Nonostante tutto io, per coerenza, sono contro il fumo. Conosco quella che sarebbe diventata la mia migliore amica e le rovino l’esistenza facendo terrorismo psicologico ogni volta che fuma un solo tiro. Mi innamoro per la prima volta, e lo sfortunato che mi sta accanto (a proposito, ciao Gio) fuma una sigaretta ogni morte di Papa, ma io gli sfracello i maroni fino all’inverosimile ogni volta che tira una boccata.
Al secondo innamoramento trovo la mia pace: il giubbotto di pelle è presente, ma il mio secondo amore è contrario alle sigarette, proprio come me. O almeno, lo è fino a che non passa un periodo di nervosismo. A quel punto indosso nuovamente i panni dell’attivista anti-fumo e gli rendo l’esistenza un inferno: e me l’avevi promesso, e non fumare, e ti fa male, e TE LO PROIBISCO. Giustamente al “te lo proibisco” scatta immediato il “vaffanculo”. Piango, mi dispero, “che minchia ho fatto, io voglio solo il suo bene, ma perché non riesco mai a stare zitta”. Un’ernia ai testicoli.
E da lì, non so per quale ragionamento contorto del mio cervello, a 17 anni suonati provo il mio primo tiro di sigaretta “per vedere cosa provava lui”. Idiozia adolescenziale. Ma almeno poi facemmo pace e la nostra storia non finì per la mia lingua lunga.

Poi l’estate in Nuova Zelanda. O meglio l’esverno, perché quando sono partita in Italia era estate e là era inverno. E quando con la mia amica prendiamo la macchinetta azzurra e andiamo a scuola, lei abbassa il finestrino e fuma una sigaretta. Ed io inizio a fare ogni volta uno, due o anche tre tiri: la giustificazione che do a me stessa è che, se devo sorbirmi il freddo che entra da fuori, almeno devo trarne vantaggio anch’io. Una sigaretta intera però non la fumo mai, e in questo modo mi auto-convinco che il voto fatto per la mamma lo sto rispettando. Campionessa olimpionica di auto-giustificazione.

E poi l’ultimo anno di scuola in Italia: si avvicinano gli esami, meeenghia lo stress. “Dai ragazzi, giacché voi fumate a ricreazione un tiro lo faccio anch’io”. Il tizio con cui ho una storiellina in quel periodo rulla sigarette come non ci fosse un domani. E io gli faccio compagnia, ma non sempre. Poi in gita mi comunicano che il tempo di scroccare è finito: voglio fumare? Bene, il distributore è là, sono maggiorenne e posso comprare tutti i pacchetti che voglio. Fumo perché mi rilassa, perché tanto il vizio non ce l’ho (ed è vero, a tutt’oggi non ho assolutamente il vizio).
Torno in buoni rapporti col mio “secondo amore” e quando fumiamo insieme una sigaretta nella sua macchina lo faccio ridere perché ancora non so aspirare. (Così imparo a rompere le balle altrui.)

Durante il periodo della maturità fumo come una dannata, specie quando ci riuniamo con gli altri compagni e Giacomo porta le sigarette al mentolo. E la nonna, a casa della quale abitavo in quei giorni, fa finta di non accorgersene. Ad agosto mi cade il pacchetto di sigarette dalla borsa e finisce ai piedi di mio padre: i miei non mi hanno mai proibito di fumare, ma si aspettavano che quando e se avessi cominciato gliel’avrei detto. E’ comprensibile quindi lo sguardo scettico di papà che mi chiede “E questo cos’è?” con un tono che significa “E perché non me l’hai detto?”. Ed io indosso una faccia di culo invidiabile, quella delle grandi occasioni, e rispondo “E’ un pacchetto di sigarette, a te che sembra?”.

Solo che, pur avendo sempre il pacchetto in borsa (il mio sogno si è realizzato!), in realtà non prendo mai il vizio: un giorno chiacchiero con un tizio che mi piace e fumiamo insieme una sigaretta, il giorno dopo scordo anche di avere il pacchetto a disposizione. Compro sempre pacchetti da 20, perché mi piace la loro forma, ma durano fino a un mese.

Quando entro in collegio mi sembra quasi un paradosso essere considerata una “fumatrice”. “Dai, giuro, dopo questo esame smetto del tutto”. Poi riprendo perché una sera sono nervosa. Poi provo a stare a dieta e condurre uno stile di vita sano e di nuovo per altri 3/4 mesi non fumo.

Riprendo nuovamente, ma questa volta fumo ancora meno. Quando vado ad abitare in appartamento, la mia coinquilina (ciao anche a te, Mimi) mi concede la stanza con la vetrata enorme, quella fornita di balcone, “così se ho voglia di fumare non devo sporgermi da una finestra”. Ed anche lì, per un attimo mi sembra strano che me lo dica: io non sono una fumatrice, l’onnipresenza del pacchetto in borsa non significa nulla.

Questo inverno credo di aver fatto pace con la mia amica Siggy: se la notte ho troppi pensieri esco sul balcone e fumo, a ruota, anche tre o quattro sigarette in dieci minuti. Poi finisco il pacchetto e per una settimana, pur avendo il distributore esattamente sotto casa, non sento assolutamente l’esigenza di sfogarmi sul fumo. Poi arriva la sessione d’esami e devo studiare, e allora dopo pranzo caffè&sigaretta è quasi un rito propiziatorio.

E finalmente il nostro rapporto non ha più bisogno di essere inquadrato: accetto con serenità che nella mia testa una sigaretta che si accosta a delle labbra dipinte di rosso sarà sempre affascinante, ma che se sono da sola a casa e mi annoio non ho bisogno di fumare (però qualche volta quasi me lo impongo, almeno di contro non mangio Nutella fino al diabete).

In conclusione?Non c’è niente da fare: la siga è figa. Ma con moderazione.

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Punti di vista

Punti di vista

Sembravano appiccicati per le labbra quei due, non si staccavano più. Accostò di nuovo le labbra alla sigaretta che gli avevano regalato e a quel lucore i capelli della ragazza sembrarono colorarsi di un rosso acceso, quasi ramato. Chissà come sarebbe andata a finire tra quei ragazzi, pensò, mentre lui tentava di far scivolare una mano lungo la schiena di lei, magari tentando di spostarsi verso posti più “esotici”. Lei si spostò dolcemente, con un movimento fluido. Perfino lui, da là dietro, poteva avvertire che lei stesse mentendo: non voleva spostarsi, ma se poi lui fosse stato uno di quelli che “vogliono solo quello”? Dieci punti in più per la ragazza.

Gli facevano tanta tenerezza, giovani e abbracciati, incuranti dei loro vent’anni e di tutti i pensieri di questo mondo. Aspirò nuovamente, e alla luce di quelle ceneri tremolanti vide che lui era ancora seduto, mentre ora lei, accucciata, poggiava la testa sulle sue gambe. Il ragazzo le accarezzava la guancia, ogni tanto chinava la testa e le dava un bacio, spostandole con dolcezza i capelli dal viso. Era un po’ goffo in quei movimenti, nonostante, a prima vista, sembrasse il più spavaldo dei due. Comunque, goffo o meno, era riuscito a tenere con nonchalance il braccio steso sul petto della ragazza. Rise, tossendo tra il fumo che aveva appena tirato fuori: dieci punti in più anche per lui. Poi si accorse che, messi così, schiacciavano inavvertitamente la rosa che avevano comprato proprio da lui, dieci minuti prima. Non ebbe cuore di arrabbiarsi: fosse stato per lui, in quel momento non sarebbe certo rimasto in giro a vendere rose alle coppiette tira-tardi. Si consolò pensando che almeno, rispetto a loro, un punto di vantaggio lo aveva: lui la sua Devi l’aveva sposata, Dio con lui era stato generoso. Quelle rose, per come la vedeva, sarebbero dovute essere tutte per lei, che aveva sempre il sorriso sulle labbra qualsiasi cosa succedesse. Gettò la sigaretta prima di fumare anche il filtrino, la schiacciò sotto al tacco per spegnerla e si passò una mano tra i capelli, sempre più striati d’argento. Lui vent’anni non ce li aveva più da almeno trent’anni, e poteva contare ognuno di quegli anni di differenza sui calli delle sue mani robuste.

Quando aveva la loro età non sognava di scappare dall’India, anzi, in realtà in serate come quelle non sognava proprio niente: si limitava ad accarezzare i capelli di Devi, mentre erano stesi nel prato dei genitori di lei. Alla luce della luna, i capelli nerissimi di sua moglie sembravano quasi un manto di seta bluastro, morbidi e lunghissimi, le arrivavano oltre la schiena. Non avevano le panchine di Milano a loro disposizione, e prima di potersi baciare con così tanta passione avevano dovuto aspettare parecchio tempo, ma anche così erano stati momenti speciali. Si asciugò una lacrima di gioia al pensiero del sorriso di sua moglie: almeno quello non compariva nella lista di ciò che la vita, o la fortuna, o chi per loro, gli aveva tolto, e a lui in tutta sincerità bastava.

Anche il sorriso di quella ragazza era luminoso, rideva di ogni stupidata che diceva quel tizio là, poi ogni tanto lo prendeva in giro e lui sembrava contrariarsi. A quel punto lui rimaneva imbronciato per un attimo, indeciso se crederle davvero e dispiacersi oppure cedere al bacio che lei tentava di offrirgli. Poi, immancabilmente, cedeva, e lei non si limitava mai a dargli solo un bacio: gli scompigliava i capelli, gli dava dei buffetti sulla pancia, accostava il naso al collo di lui e poi inspirava, per assaporare fino in fondo il suo profumo. Quella ragazza sembrava un terremoto, non restava un secondo seduta normalmente, si alzava in piedi, si sedeva sul bordo della panchina, poi sui di lui, poi si sporgeva e tentava di morderlo. Quando lui la prendeva in giro, senza mai perdere davvero il sorriso, faceva finta di scappare voltandogli le spalle e andando via. Allora si alzava anche lui, la abbracciava da dietro, le stringeva le braccia, poi abbassava la testa e le dava un bacio, le diceva “Scema, stavo scherzando!”. Continuavano a giocare scambiandosi i ruoli, senza rendersi conto che il tempo volava e lui, nascosto là dietro, li osservava ancora.

Non era un guardone, solo si beava della vista dei ragazzi giovani, e Milano ne era piena. Ne vedeva ogni giorno di coppiette, ormai avrebbe potuto riempirci un’enciclopedia con tutte le storie che aveva costruito su di loro. Lui in realtà sapeva già a prima vista riconoscere i tipi di coppia: avevano voglia a dirgli “è mia sorella” pur di non comprare le rose! Lui aveva tanta di quell’esperienza che ormai di loro sapeva vita, morte e miracoli solo gettando uno sguardo.

Sapeva quali coppie fossero sposate, quali fidanzate e quali legate solo da una forte attrazione fisica. Riconosceva una coppia litigiosa dal solo intreccio delle mani, individuava un marito premuroso dalla busta della spesa che reggeva per non far stancare la moglie e, sdegnato, si girava dall’altra parte quando vedeva qualche “galletto” che gettava sguardi alle altre mentre la malcapitata che gli era di fianco lo guardava con occhi innamorati.

Quei due, si disse, non esistevano come coppia se non da poco: i loro corpi non avevano ancora imparato ad incastrarsi ad arte, le loro anime non avevano avuto il tempo di smussarsi e sagomarsi seguendo il volere dell’altro e, lui lo sapeva per esperienza, in una coppia ci vuole anche questo: che ogni pezzo del puzzle faccia spazio all’incastro dell’altro mantenendo intatto il disegno, senza modificarsi tanto da perdere identità. E poi parlavano, parlavano e ridevano in continuazione, cercando di conoscersi meglio, ansiosi di andare avanti, non sapendo di vivere un momento unico ed irripetibile. Come sarebbero andati avanti e cosa avrebbero fatto di loro lui già lo sapeva, ma non ci teneva a raccontarglielo: non c’è gusto a leggere una storia di cui si sa già il finale.

Raccolse le rose, e sorridendo andò a vivere nella storia della coppia che discuteva sul bordo della fontana.

 

Oggi sono io

Oggi sono io

Mi sono spiata illudermi e fallire, abortire i figli come i sogni.

Quanto è dolce il sapore di sapere che sei caduto ma ancora per un po’ non sarai obbligato ad alzarti. A me la notte piace per quello: ti rassicura. Anche se sei un fallimento totale, anche se indossi una felpa vecchia e logora e hai i capelli sporchi e gli occhiali e i brufoli, non devi renderne conto a nessuno.

Nelle narici ho l’odore del tè con il latte, dei biscotti del discount che costano meno, delle mie dita protette dalla crema profumata e dal fumo di una sigaretta fa, la lavanda copre ogni cosa, il sapore amaro della valeriana scende giù con il sorso di tè bollente che mi ustiona la gola e dà sollievo.

Questa notte è maledettamente orrenda e romantica, così solitaria e così liberatoria, questa notte è vita e pausa dalla vita, questa notte non sono costretta a dormire, questa notte sono io.

Se solo ci fosse una notte già confezionata, pronta ad accogliermi ogni volta che ricevo uno schiaffo morale, non sarei così triste. Sarebbe bello, vero? Il tuo ragazzo ti confessa di averti tradita e tu, PUF! ti ritrovi in pigiama con una tazza di tè tra le mani. La tua amica ti esclude dal pranzo dietetico tra fighettine e tu, SBENG! sei nel chiuso della tua camera, è già mezzanotte e hai addosso la felpa lercia del viaggio a Praga. Quando invece la prof ti umilia davanti a tutti gli studenti del tuo corso, puoi pur sempre chiudere gli occhi e ritrovarti sul balcone a fumare una sigaretta sotto la pioggerellina.

È che la notte ti solleva da ogni responsabilità: sì, domani dovrai migliorare, ma fintanto che la notte dura nessuno pretende che tu dia il meglio di te. Può succedere di tutto durante la giornata, ma quelle cinque, sei, sette… otto ore di sonno potrai averle sempre.

Avrei solo bisogno di più dolci notti per dare equilibrio all’amarezza dei giorni imperfetti.