Un bacio oltreoceano

Un bacio oltreoceano

Affidarsi alla riproduzione casuale è un po’ un modo per lavarsene le mani: scegli tu che musica farmi ascoltare, caro pc, così non sarò io a decidere se piangere o ridere.

E finora aveva sempre funzionato, sai? Finché ieri non mi è capitato di ascoltare Matilda, quella canzone di Harry Belafonte che ascoltavamo da piccole, nella Polo della mamma, quando eravamo a Gallipoli e andavamo in spiaggia.
Tu eri uno scricciolo paffuto, un paio di guanciotte da mordere e un caschetto di capelli biondissimi. E poi ridevi, sì, avevi sempre quel sorriso meraviglioso.

Ascoltavi quella canzone e c’era sempre un pezzo in cui ridevi e ridevo anch’io, ma la tua era proprio una risata piena, un ridere a crepapelle, che mi faceva ridere ancora di più.
Quanto ci facevano esaltare quelle canzoni, eh? Le cantavamo sbagliando la metà delle parole, saltellando sul sedile posteriore e solleticandoci. Adesso invece le parole le conosciamo tutte, e se dovessimo saltare sul sedile posteriore rischieremmo di sbattere la testa contro il tettuccio.

Comunque ieri ascoltavo questa benedetta canzone e non sapevo più se ridere o commuovermi.
Ridevo da sola, capisci? Ho perfino provato a girare lo sguardo per vedere se ti saresti voltata anche tu, e poi quando ho capito mi sono commossa un po’.
Mi sono proprio colate le lacrime sul viso e poi ho sentito quella sensazione che conosci bene anche tu, quel brivido sotto le guance che mi colpisce quando in tv vedo i bimbi che cantano, oppure i conigli, oppure quando Phineas & Pherb cantano qualche canzone o quando vedo qualche telefilm idiota. E tu mi prendi sempre in giro. Ed io ti chiamo “scema” prima di ridere con te.
Tu forse non puoi immaginare quanto sia strano che la mia bimba tra qualche mese sarà maggiorenne. Dici che diventare diciottenne non ti esalta per niente, che ti è indifferente, e ti do ragione: l’età è solo un numero.
Il problema è che 18 è un numero terribilmente vicino al 20, e non so quanto sia pronta ad accettare che il mio topino biondo tra un po’ sarà – ahia, quanto fa male dirlo – una specie di… si dice adulta, vero? Io i venti li ho compiuti e stracompiuti, e ti assicuro, hai ragione: non si diventa adulti per niente, però gli altri pretendono che tu lo sia.

Stai tranquilla piccolina, che io non pretenderò mai che tu sia adulta.
Per me resti sempre la bimba che eri quando andammo in viaggio in un’America, come dicevi tu. Perché andavamo solo in una America, mica in tutte e due. E tu avevi il pigiamino a righe bianche e celesti, il biberon pieno di apple juice e volevi sempre il polletto fritto col ketchup (o meglio, per gli amici, chup). Guardavamo i Teletubbies in inglese, ma soprattutto ci ostinavamo a guardare anche Mucca e Pollo in inglese, e Dio solo sa cosa mai capivamo.
Forse non lo ricordi nemmeno, ma quando mamma e papà erano in giro a fare i turisti a volte restavamo sole a casa con Bill e Georgia, e anche lì, tra un gesto e quelle due parole che riuscivamo, o forse riuscivo solo io, a spiccicare, ci facevamo viziare tra parco giochi, chocolate chip cookies e visite allo zoo di Cincinnati.
Io e te abbiamo passato un’infanzia stupenda, già da piccolissime in giro per il mondo, te ne rendi conto? Siamo state in Francia, in Tunisia, in Germania, in Inghilterra e anche in Scozia, in quell’albergo in cui dormivamo tutti e quattro nella stessa stanza e papà pensò bene di stiracchiarsi così rumorosamente che per lo spavento cademmo dal letto a castello. Dove, neanche a dirlo, dormivamo in due sul letto di sopra.
Non avevamo neanche dieci anni e avevamo girato insieme mezzo mondo. Poi i viaggi abbiamo iniziato a farli da sole: io a Edimburgo e tu in Norvegia con mamma e papà, io in California e tu in Croazia, io a Dubai e tu a casetta, io in Nuova Zelanda e tu a New York.
Insomma, con Dubai ero passata in vantaggio rispetto a te. E adesso con quest’anno in Québec mi sembra che, più che pareggiare i conti, mi superi senza troppi complimenti.

Mentre ti scrivo sei già lì, amore mio, a rispondere in inglese quando ti fanno le domande in francese, a passeggiare tra i corridoi della scuola cercando di tenere a mente la combinazione dell’armadietto, o forse a sellare qualche cavallo o ancora starai ridendo con la tua nuova sorella.
Mi raccomando, se riderai con lei dovrai ridere come quando ridevi da piccola: senza trattenerti, con le lacrime agli occhi, col sorriso a trentadue denti.
Fotografa tutto ciò che puoi e fatti fotografare ovunque, perché quello che ora ti sembra destinato a restare per sempre nella memoria un giorno sarà un ricordo sbiadito.
Fatti fotografare perché sei bellissima, anche se non ci credi, e quando ingrasserai di quei 20 o 30 chili mostra con orgoglio i tuoi rotolini, non cercare di nascondere la pancetta all’obiettivo, o sembrerai un’ebete che gioca a nascondino. Per dimagrire ci sarà tempo, quando tornerai in Italia e la crisi ci avrà levato anche l’aria per respirare.
Vivi qualsiasi esperienza tu possa vivere, non farti mai prendere dalla pigrizia, sii propositiva e se gli altri non si avvicinano di loro spontanea volontà tu presentati lo stesso, non mettere mai da parte quella pazienza e quella serena rassegnazione che ti hanno fatto guadagnare il titolo di angioletto della mamma.
Assaggia qualsiasi piatto diverso dal nostro, non fare la schizzinosa, aiuta sempre in famiglia e non farti mai scoraggiare dalle novità.
Sei il mio topo forte e coraggioso, e sei il mio più grande orgoglio.
Lascia stare tutte le mie critiche e i miei rimbrotti, a volte sono rompina quando ti ho sempre intorno, ma poi mi basta che tu ti allontani per ammalarmi, proprio io che sono sempre sana come un pesce.
Ti ricordi? La mamma ci ha sempre raccontato che quando, appena nata, tornasti in ospedale per un po’, io mi ammalai. E quella volta che ti lasciammo a Udine mi vennero le coliche. E quando due sabati fa ho capito fino in fondo che non t’avrei potuta rivedere nemmeno a Natale, sono diventata completamente abulica per tre o quattro ore di fila.

Nonostante questo sono così felice per te, più felice di quanto lo sarei per me stessa, dico sul serio.
Ti mando non un solo bacio, ma una scorta di baci fortissimi, di quelli con cui ti faccio male alle guance, così quando ti sentirai sola o in difficoltà potrai usarne uno e saprai che la tua sorellona è sempre lì con te. Bonne chance, mon souriceau

Cose che (non) cambiano

Cose che (non) cambiano

Io l’avevo detto che mi mancava il Sud, e infatti non ho resistito: ho dato questa benedetta idoneità di informatica (senza fare neanche un misero errore, applausi per me) e sono saltata su un treno per Lecce.
Lasciando perdere il mio viaggio fantozziano di cui, tranqui funky, vi racconterò comunque molto presto, vorrei concentrarmi sulla situazione che sto vivendo al momento.

Dunque, da quando sono tornata ho scoperto che:
1. Ultimamente al locale di mia mamma (ha una gastronomia) si lavora come i ciuchi, ergo a casa nostra a pranzo cucina mio padre e la sera si mangiano CARBOIDRATI che arrivano dal locale della mamma. Vorrei sottolineare la straordinarietà dell’evento, per una famiglia di persone che sono perennemente a dieta;

2. La mia sorellina jappa, Yurika, ieri è tornata ai suoi lidi natii. Cioè, in realtà è ancora in viaggio,  ma abbiamo dovuto salutarla in stazione e credo di non aver mai visto tante lacrime in vita mia se non ad un funerale. Ci mancherà tantissimo la nostra Jap-Potato;

3. La Sindrome del Casalingo di mio padre si è ulteriormente aggravata da quando la mamma ha preso a lavorare full-time, ormai non mi stupirei di vederlo girare con un vestitino di pizzo nero, il grembiulino bianco e la crestina in testa, da perfetta cameriera francese;

4. Mia sorella ha un account su un sito che si chiama TwitMusic, che io non sapevo neanche che esistesse un sito simile, ma invece lei carica tutte le sue registrazioni vocali riscuotendo un successo che – mon Dieu! – fa spavento. È diventata esageratamente brava, quella femmina di sorcio che non è altra;

5. Nonostante un terzo dei miei amici sia ancora su, sparsa per le varie città del Nord a dare gli ultimi esami della sessione, e un altro terzo sia già in riva al mare, c’è pur sempre quello zoccolo duro di personaggi che restano in città e pretendono un’uscita o un caffè: neanche a dirlo, mi piego molto volentieri a questi ordini perentori. E mi chiedo cosa dirò tra una settimana al professore di latino quando mi presenterò a sostenere un esame che, al momento, mi terrorizza quasi quanto il famigerato Rasputin di cui ho parlato in qualche vecchio post.

Tutto ciò l’ho scoperto nel giro di due giorni o poco meno.
E in questi due giorni ho già avuto il tempo di fare tutte queste osservazioni, salutare parte dei parenti, fare una sorpresa a mia mamma che non sapeva del mio ritorno e sbolognare a santa Zamira tutte le mie robe sporche e i miei jeans da riparare. Ho anche dovuto rifiutare un gelato con Giacomo per studiare (che nervi), ho sentito Giorgio che mi ha fatto una specie di concerto privato al pianoforte (Allevi gli fa un’egregia pippa) e sono stata a casa di Laura dove tutti hanno notato la straordinaria lunghezza dei miei capelli. Sono stata ad un concorso di canto di mia sorella, in una pizzeria all’aperto, dove noi quattro avevamo un tavolo personale e non abbiamo fatto altro che ridere per tutto il tempo aspettando delle pizze che sono arrivate a mezzanotte. E lì ho incontrato un sacco di facce vecchie e nuove, che mi hanno accolta più o meno benevolmente. Ho fumato davanti ai miei genitori che non hanno fatto una piega.
Ho preparato la pasta alle cozze, con delle cozze vere che sapevano di mare anziché di gomma, e mentre la preparavo è squillato il telefono di casa. Ha risposto mio padre dicendo “Ciao amore mio”: era la mamma.
Poi stanotte sono stata svegliata da un rumore che mi ha fatto pensare in sequenza al terremoto, a una carica di elefanti e infine ad un cacciabombardiere che stesse sorvolando il Salento. Poi ho avuto un’illuminazione e ho girato la testa per guardare alla mia destra: a cinque centimetri dal mio letto, con un sorriso beato sul suo bellissimo viso angelico, mia sorella russava così forte da far segnare come minimo un 8 pieno sulla famosissima scala Richter.

È proprio vero che su alcune certezze si può sempre contare.

E per te ogni cosa che c’è, ninna na, ninna e

E per te ogni cosa che c’è, ninna na, ninna e

A volte mi chiedo cosa ci sia di sbagliato nella nostra situazione. Ti giuro, vorrei capirti, ma dubito che mai ci riuscirò. 

Io avrei sempre sognato un fratello o una sorella maggiore, o meglio ancora di averli entrambi, ma già con la sola azione di nascere mi sono bruciata questa possibilità. Allora me ne sono fatta una ragione ed ho stressato mamma e papà perché mi dessero almeno un fratellino o una sorellina minore.

Quando sei nata non potevo credere ai miei occhi, avrei passato le ore a guardarti dormire nella culla. A volte, di nascosto, credendo di non essere scoperta, entravo nella nostra stanza dove tu già dormivi, solo per guardarti e immaginare come avremmo giocato insieme una volta che tu fossi cresciuta.

Delle due, io sono sempre stata quella col carattere peggiore: tu eri l’angioletto biondo della famiglia, la piccolina, quella che davanti a un rimprovero, più che rispondere, piangeva pentita, e allora tutto si risolveva e nessuno riusciva a darti una colpa che fosse una. Io ero diversa: sono sempre stata una bambina buona, di buon cuore e di buone intenzioni, ma quando mi facevano saltare la mosca al naso sbattevo i piedi per terra e mi beccavo tutte le sculacciate del caso.

Se giocando mi soffocavi premendomi un cuscino in faccia “eri piccola, non potevi capire”. Se io ti rincorrevo intorno al tavolo a casa della nonna “Elisa, smettila, sei la più grande e spaventi sempre la PICCINNA”, con due enne, in pieno salentino style. Noi litigavamo a volte, questo è vero, ma la maggior parte del tempo sapevamo bastarci a vicenda nonostante i tre anni e mezzo di differenza, che a volte sembravano niente e altre volte erano un abisso. 

Tu eri quella col carattere meraviglioso ma con un grandissimo senso di responsabilità, io ero la rompina che però sapeva far ridere tutti al momento giusto, e questo era scontato e insindacabile, però non ci invidiavamo niente, e non facevamo altro che venirci incontro quando una delle due la combinava grossa e doveva pagarla. Io avevo risposto male a papà? “Papà, ti prego, basta gridarle contro, altrimenti piango io”.Tu avevi rotto il cesto della biancheria mentre la mamma e papà erano fuori? “Mamma, non è stata lei, sono stata io… ma per sbaglio eh!”

Ci scambiavano per gemelle, ti ricordi? Nonostante io (almeno da piccola) fossi più alta di te, nonostante io fossi bruna e tu bionda. Nei viaggi la mamma ci faceva vestire uguali, e noi, diligenti, seguivamo i nostri genitori per ore e ore nelle camminate, ridendo e divertendoci, godendo l’una della compagnia dell’altra. 

Poi abbiamo passato quella fase in cui tu volevi imitarmi, chissà se ora te lo ricordi, io ero alle medie e tu volevi seguirmi dappertutto. A volte di malavoglia, ma molto più spesso senza alcun problema, ti portavo con me alle festicciole, ti pregavo di non darmi problemi, facevo finta di essere seccata dalla tua presenza, ma alla fin fine neanch’io riuscivo a fare a meno di te. Mi prendevano in giro perché in vacanza-studio sentivo la mancanza di mia sorella.

Ho anche passato la mia bella crisi adolescenziale, e ti confidavo tutto nonostante tu già fin da piccolissima mi nascondessi ogni cosa. Una volta mi hai gridato contro “Quando si litiga in questa famiglia è solo per te!”. Mi hai detto che non avevamo mai problemi se non quando io rovinavo tutto, e mi hai fatto crollare il mondo addosso. Stavi cominciando a non difendermi più nei litigi, se a tavola mi sgridavano e tu intervenivi… ormai era a mio sfavore. Io però continuavo a cercare in te quell’appoggio che avrei voluto in una sorella, anche quando sapevo di essere sfacciatamente dalla parte del torto, cercavo il tuo sguardo per essere sostenuta, ma quello già cominciava a non esserci più.

Ora non so cosa sia successo, da quando non abito più a casa è diventato difficilissimo sentirti, che tu mi faccia una confidenza non ne parliamo, non succede più forse dai tempi delle materne. Ti faccio presente in continuazione che se hai una sorella maggiore bè… potresti sfruttare la situazione a tuo favore, potresti chiederle consiglio su ciò che lei ha appena vissuto, potresti semplicemente smetterla di chiudere ogni accesso che io cerco di aprire, o almeno dirmi perché, da un giorno all’altro, ho smesso di andarti a genio e di essere importante nel ménage della tua vita.

Ti servo solo quando faccio la battuta divertente? Solo quando a tavola continuiamo a parlare senza soggetti e predicati ma capendoci lo stesso? 

Lo so, mi potrai trovare esagerata. Ma dubito che qua mi leggerai, ed anche se dovessi farlo ancora una volta non ti sforzeresti abbastanza per cercare di aprirti un po’ di più. E’ il tuo carattere, posso capirlo. Io nei tuoi quasi 17 anni di vita mi sono sforzata tanto per capirti, mi sforzo di non prendere in mano il telefono e parlarti per 5 ore di fila, mi sforzo di non abbracciarti in continuazione quando ti vedo e a volte mi sforzo di non ficcare il naso nei tuoi affari, anche solo per capire cosa ti succede. Perché, una volta per tutte, non puoi capire che tua sorella tutta questa indifferenza non la regge, che tutto questo tuo silenzio la fa stare male?

Mi manchi, mi manca la mia compagna di giochi. Ti voglio bene.