Ferrovie dello Stato

Ferrovie dello Stato

Neanche a dirlo, anche questa volta il mio viaggio parte male: il treno è partito con dieci minuti di ritardo, nella più rosea delle ipotesi ho cinque minuti di tempo per poter scendere alla stazione di Milano, controllare sul tabellone dov’è il mio binario, sbagliare direzione come al solito e poi vedere le porte del treno che mi si chiuderanno sul muso.

Lui mi aiuta a portare la valigia sul treno, con l’occasione mi si siede davanti.
Ha una camicia bianca a maniche corte, i primi bottoncini aperti a mostrare i peli del petto, già un po’ ingrigiti dal tempo.
Una collana con un ciondolo a forma di zanna stringe a fatica il collo grassoccio.
Gli occhi, piccoli e porcini, sono l’unico dettaglio che colpisce: celesti come il cielo, ma nonostante questo brillano di una luce inquietante.

La pelata è lucida di sudore.
Parla con un forte accento del Sud.

Prova a lanciarmi una battutina per attaccare bottone, senza riuscirci. Mi concentro sulla musica, spingo le cuffiette ben dentro le orecchie come a suggerirgli che è con loro che voglio passare il resto del mio viaggio.

Purtroppo squilla il cellulare. Parlotto con la zia, la ringrazio per gli auguri e poi chiudo.

Mi chiede quanti anni compia, non è il mio compleanno, è l’onomastico, qual è il nome di questa bella fanciulla? Glielo dico e mi porge una mano grassoccia e stringendo la mia mi fa gli auguri. Guardo il suo anulare e noto una fede d’oro e una d’argento.

Papà, il treno è in ritardo, non riuscirò a prendere la coincidenza. Controlli tu quando posso prendere il prossimo treno? Va bene, ci sentiamo dopo.
Perché non vado a mangiare una pizza con lui e poi mi porta in stazione e parto domattina? No, grazie, non voglio partire domattina. Parlo al telefono con papà, anche lui parla al telefono con qualcuno ma nel frattempo cerca di parlare anche con me, mi mette una mano sulla coscia e d’istinto mi muovo, per evitare ogni contatto fisico.

Davvero, perché non resto in città con lui? Possiamo partire domani. No, grazie.
Dice che sembro una bambolina, dovrebbe essere un complimento, e allora perché mi ha fatto rabbrividire?

Siamo arrivati alla stazione grazie al Cielo e sono al gabbiotto con due signori gentilissimi. Discutiamo per capire quale soluzione sia migliore, se prendo il treno tra venti minuti ci sarà un cambio, ma altrimenti dovrei prendere quello di domani mattina e… compare lui, alle mie spalle.
Chiede dove può comprare il biglietto, mentre alle nostre spalle campeggia un’enorme e lucente macchinetta dei biglietti.
Forse per un sesto senso i due signori lo liquidano e lo invitano ad allontanarsi mentre parlano con me.
Scappo a prendere il primo treno disponibile. Devo scendere a Piacenza, ci sono pochi posti, poggio il mio valigione e mi siedo con tre signori. Uno è sudamericano, come minimo ha settant’anni.

Questo ferma a Parma, signorina? Sì, certo, è il capolinea. Cos’è il capolinea? Provo a spiegarglielo, mentre un’affannata e grassoccia signora ucraina sale sul treno. Questo va a Piacenza? Certo signora, io scendo lì.

Devono avermi scambiata per il centro informazioni, mi subissano di domande. Mi armo di pazienza e rispondo a tutte quelle a cui posso rispondere. Adoro questa educazione, questa estrema umiltà e cordialità di altri tempi. Sono molto più grandi di me, ma continuano a rivolgersi con un ossequioso “lei”, e io ricambio, ricambio con molta più spontaneità di quella che uso nel dare del lei a quel tamarro di prima, che non era tamarro per il petto villoso ma per quell’animo torbido e inquietante.

Siamo a cinque minuti da Piacenza, arriva un isterico controllore sulla quarantina. Si scaglia contro ritegno contro la povera signora ucraina, le dice che non ha obliterato il biglietto e che per questo dovrebbe pagare la multa. Lei prova a spiegare, ma lui continua a urlarle contro.

So che non dovrei, ma mi intrometto. Le macchine obliteratrici erano tutte spente, gli spiego, la signora rischiava di perdere il treno, ce l’ha fatta per un pelo.
Ed io chi sono, l’avvocato delle cause perse?
E tu chi sei, il rappresentante ufficiale degli imbecilli in divisa? Questo però lo tengo per me.
Urla anche contro di me, lo stronzo. Dice che ho stampato male il biglietto. Come si fa a stamparlo bene? Gli chiedo, con la faccia di tolla. Sbraita il triplo.
Il treno finalmente ferma a Piacenza. Il controllore scende, una signora gli si avvicina per chiedergli dove si prende il treno per Lecce. Non lo vede, signora ritardata, che c’è il cartellone luminoso?
Ok, se questo non dovessero licenziarlo entro questo mese che il karma possa almeno infliggergli una cacarella sempiterna.
Il cartellone dice che il mio treno, che poi è lo stesso della signora, parte dal binario più lontano da quello dove siamo al momento: non ci resta che portare i nostri ventordici bagagli ciascuno giù e poi su lungo le scale (luride) della stazione. Una signora rachitica e iperattiva mi chiede di aiutarla con le sue valigie, come se io stessi trasportando un sacchettino di piume. La aiuto.
Al binario incontro di nuovo la vecchia signora ucraina. In un italiano parecchio stentato, mi chiede altre informazioni. Cerco di aiutarla per quanto mi è possibile, questa simpatica signora che ha capito che non ho potuto cenare e mi riempie le mani di cioccolatini del suo paese. È buona la cioccolata ucraina, davvero, devo provarla. Lei è appena tornata da là, per stare un po’ con sua figlia e con i suoi nipotini, perché è nonna, e i soldi che guadagna qui facendo da badante li manda a loro. Prenderemo lo stesso treno, solo che lei si fermerà a Bologna.

Il maniaco sbuca alle mie spalle: ci ritroviamo qui, che fortuna! (Oh sì, certo, che culo. Te possino…!). No, mi dispiace, non posso aiutarla a fare il biglietto. No, non posso muovermi da qui.
Il treno arriva. Come mi è stato detto di fare, cerco il controllore e gli spiego la mia situazione: il biglietto è valido ma non ho il posto prenotato, la colpa è vostra, che devo fare? Ah, semplice, devo solo sedermi da qualche parte, aspettare che il legittimo proprietario rivendichi quel posto e spostarmi come una vagabonda per tutta la notte. Quando non troverò un posto libero, potrò sempre aprire una seggiolina nel corridoio.

MA IO VI ODIO.

Occupo un posto ma, come previsto, il legittimo proprietario mi manda via con malagrazia. Sconfortata vado in corridoio e… psss… psss… signorina, qua c’è un posto: è la signora ucraina, ha preso il posto anche per me.
Siamo sedute lì, io, lei, un tizio dormiente e un ragazzo tunisino. La signora mi offre ancora dei cioccolatini, insiste, e io accetto. Mi dà anche del pane integrale, mi dice di provarlo con la cioccolata, che è squisito. Lo provo e le do ragione: delizioso.
Il ragazzo tunisino ci augura buon appetito. Gli rispondiamo con un sorriso. E parliamo anche con lui.
E loro mi raccontano tante cose, lui mi dice che non vede sua madre da anni, che ha tanti fratelli e dei nipoti. Mi dice che ha ventotto anni, io quanti ne ho? Quasi ventuno, e non mi sembra il caso di mettere su famiglia? Forse devi pensarci prima tu, ribatto. E sorride. E quando gli dico che sono stata in Tunisia da bambina non si scandalizza, non lo turba affatto che io abbia visitato da turista la sua nazione, quel Paese che lui ama ma da cui è stato costretto a scappare. Mi chiede anzi se mi sia piaciuta la sua terra, si commuove quando gli dico che i passanti chiamavano “Fatima” me e mia sorella per farci un complimento. Si chiama Amin, e sa parlare l’italiano, il francese e il tunisino. E gli piace tanto il mio sorriso.
La signora è vedova, ha perso il marito mentre già lavorava qua. Prima lavorava a Napoli, mi dice, ma lo stipendio era troppo basso. In Ucraina la vita è dura, gli stipendi sono la metà di quelli italiani ma il costo della vita è lo stesso. Sua figlia e suo genero tirano la cinghia per far crescere due bambini piccoli.
E io che faccio? Mi chiedono. Studio? E come mai non lavoro? Mi aiutano i miei? Che lavoro fanno? Rispondo, quasi vergognandomi della mia condizione di privilegiata. Sì, studio, qualche volta do ripetizioni ma non è un vero lavoro. L’affitto lo paga papà, i miei sono liberi professionisti. E sì, la mia casa ha un giardino. E mi faccio sempre più piccola mentre lo dico, perché tutte queste fortune che io non riesco ad apprezzare giorno per giorno per loro sono una miniera d’oro.
Eppure, lungi dall’essere invidiosi di ciò che mi è toccato per colpa della sorte cieca e bastarda, loro sono curiosi di sapere della mia vita, sorridono, sono felici per me.
Vogliono vedere le foto dei miei, di mia sorella, della mia casa. Per loro è tutto bello, noi siamo bellissimi, la mia casa è bellissima, i nostri sorrisi sono bellissimi. Quanto è giovane mia mamma! Quanti anni ha? Viene fuori che ha la stessa età della signora, ma lei ne dimostra almeno venti di più. Sono vent’anni di fatica, di vesciche sotto le mani, di trattori troppo pesanti per essere guidati da una donna, e vent’anni di rispetto, di umiltà, di sapersi arrangiare.
Ormai mi considerano sotto la loro ala, devono scendere a Bologna ma sono preoccupati per il mio viaggio solitario fino a Lecce. Lei mi saluta con calore, lui vuole il mio numero, io gli do il mio contatto di Facebook. Mi fido di lui, mi fido davvero, ma è pur sempre uno sconosciuto incontrato sul treno. Vuole che mi stenda lungo i sedili, mi copre alla bell’e meglio, chiude le porte scorrevoli e le tendine perché nessuno possa spiarmi. Rischia di perdere la fermata, gli faccio presente. Devo farmi sentire, mi dice senza smettere di sorridere.
E poi va via mandandomi un bacino, e io ho dimenticato il maniaco, i controllori e i ritardi e tutti i miei problemi da viziata, e sono pronta ad affrontare la nottata tragicomica che mi si para davanti con una prospettiva totalmente diversa.

Antropologia

Antropologia

Più che Lettere avrei dovuto studiare Antropologia, con questa mia mania di studiare il comportamento della gente che incontro. Mi piace la gente, mi affascina.

Finché non la conosco troppo la amo, davvero, amo anche quelli che manderei a fare in culo al primo sguardo, perché sono estremamente interessanti da osservare e molto spesso anche divertenti. Facciamo un riepilogo di chi ho incontrato fino ad ora.

Dunque, il primo incontro interessante di oggi sono state tre ragazzine che pensavo fossero come minimo mie coetanee, e invece da alcuni stralci di discorsi ho capito che avevano diciassette o al massimo, ad essere generosi, diciott’anni. Delle gambe da gazzelle, la figaggine stampata in faccia, prendevano un treno per Milano, sicuramente per andare a fare shopping. Ora, il motivo principe per cui le ho notate è ovviamente la mia invidia galoppante per quelle benedette gambe lunghe come un’autostrada e magre come delle bacchette da sushi. Roba che anche se dovessi perdere cinquanta chili e arrivare ad avere gambe così magre sicuramente data la mia bassezza sembrerebbero tozze in ogni caso. Mi si sono piazzate accanto e hanno acceso, in sincro, una sigaretta ciascuna. Che già lì, appena le ho viste fare questo gesto in automatico, ho capito che lo facevano più per fare le donne di mondo che per reale voglia.

Poi hanno iniziato a parlare: tre voci da oche sgraziate e tre cervelli che probabilmente, sommati, non ne facevano uno da macaco. Dico solo che hanno parlato per dieci minuti buoni dello shatush e di come apparivano le loro “amiche” con le punte schiarite, ovviamente sottolineando che loro avrebbero avuto più buongusto e avrebbero scelto meglio.

Il secondo argomento è stato il cellulare, e lì devono ringraziare l’Onnipotente se mi sono trattenuta dal prenderle a sberle: ci troviamo nel bel mezzo della crisi economica peggiore della storia e ‘sta deficiente, a cui era stato regalato l’iPhone nonostante il vecchio cellulare funzionasse ancora bene, diceva alle due socie che quando il padre le aveva proposto di vendere il vecchio Nokia si era rifiutata, “perché altrimenti dove li rileggo i vecchi messaggi dolci?”. Uno schiaffo in faccia a quella fetta di popolazione che si spacca il posteriore per mettere ogni giorno qualcosa in tavola. E non so se l’Oscar per essere la più grande idiota vada a lei o al padre, che a quanto pare l’aveva assecondata senza colpo ferire. Vatti a stupire se poi, a sentire questi discorsi da oche giulive pronunciati a voce altissima, nessun ragazzo se l’è filate nonostante le gambe da gazzelle. Strafottetevi, idiote.

Poi sono salita in treno e un ragazzo (meridionale, come se ci fosse bisogno di specificarlo) mi ha portato su la valigia con grandissima gentilezza. In viaggio ho sentito lui e la madre che discutevano nel corridoio: salentini, senza dubbio. Un accento tamarro come pochi al mondo, ma d’altronde ci sono già state donate la galanteria e la cordialità (piccola autocelebrazione), in qualche modo bisognava compensare.

Nello scompartimento invece ero seduta con un tizio molto distinto (Rolex al polso, portatile sulle ginocchia, occhialetto figo), che sulle prime mi sembrava un po’ snob, poi invece si è dimostrato cordialissimo. Anzi, mentre era al telefono con la moglie/compagna/fidanzata che rompeva ci strizzava anche l’occhio come a dire “che palle”. Io e il signore accanto a me trattenevamo a stento le risate.

La mia preferita, però, era la vecchietta dall’evidente accento meneghino che trasaliva ogni volta che dal corridoio arrivava una qualche esclamazione in salentino stretto. Non che fosse contro i terroni (mi ha chiesto di dove fossi, e quando le ho detto che ero pugliese mi ha rivolto un sorrisone), ma effettivamente, come ho già detto, un accento come il nostro non si può propriamente definire “gradevole”.

Ovviamente ha subito cercato di attaccare bottone con la sottoscritta: non so per quale oscuro motivo, ogni volta che incontro un vecchietto o una vecchietta questi viene improvvisamente colpito dall’irrefrenabile voglia di raccontarmi tutta la sua vita e avere uno scambio d’opinioni con me. Sarà per il faccino da brava bambina che mi porterò dietro fino alla tomba. Fatto sta che la signora, un metro e cinquanta di ossicini ed energia, ha preteso di raccontarmi tutta la sua vita e non ha fatto altro che chiedermi “Signorina, ma secondo lei siamo in ritardo? Tra quanto arriviamo? Eeeh com’è diventata brutta la strada qua intorno! Troppi palazzi eh? Lei che ne pensa?”. Io sono logorroica come poche, e nonostante questo non riuscivo a tenerle testa.

Ora sono qua alla stazione di Milano, in attesa di prendere il treno per Lecce. E l’unica cosa che riesco ad osservare sono due indiani che a loro volta osservano la mia scollatura. “Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole”. Se non la smettono è la volta buona che sfodero il mio lato da Hulk. Piccola e tenera un par de palle, cari miei: l’apparenza inganna.

(Piccola precisazione: il pezzo è stato scritto il giorno in cui sono tornata a casa per le vacanze di Pasqua, ma oggi l’ho ritrovato e mi sembrava carino pubblicarlo)

I 15 motivi per cui vale la pena alzarsi al mattino

I 15 motivi per cui vale la pena alzarsi al mattino

Ovviamente non c’è un ordine d’importanza tra queste cose: è come al solito un libero fluire dei miei pensieri. Enjoy!

  1. Un artista di strada che sorride: potrà sembrare stupido, ma giuro che oggi questo evento da niente mi ha scaldato il cuore per il resto della giornata. Tornavo a piedi dalla Biblioteca, e nel sottopassaggio vicino casa mia cantava e suonava la chitarra un artista di strada bravissimo, con gli occhi celesti. Gli ho dato la prima moneta che ho trovato nella tasca del giubbotto e per un attimo ho alzato lo sguardo verso di lui: mi ha regalato un sorriso vero, genuino, di quelli bellissimi. Un sorriso del genere ti fa sperare nel buon cuore della gente.
  2. Il tragitto fino al lavoro/scuola/università: ogni giorno, abitando in una città non troppo grande, ho l’opportunità di andare a piedi fino all’università. Nel percorso mi si rinfresca la testa, penso tra me e me a cosa potrò combinare di bello nel corso della giornata e se mi gira penso anche a qualcuno che mi piace. Giusto per regalarmi un sorriso! Provare per credere.
  3. Un vecchietto in bus: quando, durante la mia giornata, mi capita di avere l’esigenza di muovermi in bus, sono il bersaglio preferito di vecchietti e vecchiette. “Signorina, ma sa che ha davvero dei begli occhi?”
    “Signorina, lo dico a lei che mi sembra affidabile, io sono vecchia fuori ma giovane dentro! E ho un fidanzato più giovane di me che somiglia a Massimo Ranieri!”
    “Signorina, ma lei studia all’Università? E in quale facoltà? Ah, Lettere? Ma io l’avrei
    vista meglio a Giurisprudenza!”
    “Sa, io sono vecchio ma se fossi ancora della sua età forse forse la corteggerei!”
    A parte la galanteria d’altri tempi (e le cataratte che consentono loro di vedermi molto più carina di quanto non sia), è bellissimo scambiare qualche parola con gli anziani: li aiuti a timbrare e sei tu che doni qualcosa a loro. Loro, con quegli appena 60 anni in più, ti regalano perle di saggezza capaci di raddrizzare le giornate più storte.
  4. La possibilità di riprovarci: ciascuno di noi ha un obiettivo molto alto da raggiungere, che sia perdere dei chili o acquistare punti sul lavoro, o anche entrambe le cose. Quello che a volte tendiamo a dimenticare è che il futuro non arriva tra un anno, ma tra un giorno, e ogni piccolo mattoncino è fondamentale in ciò che stiamo costruendo. Una giornata può non portare alcunché di nuovo, oppure può rivoluzionare la nostra vita.
  5. Il profumo di focaccia bianca nell’aria: anche quando so che non sarò io a mangiarla, l’odore della focaccia bianca appena sfornata mi dà un senso di allegria. Forse perché mi ricorda la mia casa? Oppure è solo un odore confortevole? Non ne ho idea. Eppure il mio naso ringrazia cordialmente i forni di tutta la città, che gli danno un motivo per non andare mai in ferie.
  6. Fantasticare: ok, questo potrà sembrare il motivo più assurdo, o più che altro insensato. Se mentre dormiamo stiamo già fantasticando nei sogni, che motivo c’è di svegliarsi al posto di poltrire? Nei sogni è raro che riusciamo a controllare la situazione, e spesso gli altri ci possono sopraffare. Se durante la giornata invece immaginiamo una conversazione col professore insopportabile, con l’amico che ci ha fatto girare le balle, con chi non contraccambia il nostro amore… è difficile che nei nostri copioni mentali faremo la parte dei perdenti. Lunga vita ai sogni ad occhi aperti!
  7. Lavorare o studiare: se il punto 6 sembrava strano, questo potrà sembrare pura fantascienza. Ma sono convinta che, se si studia qualcosa che ci piace o se abbiamo il lavoro dei nostri sogni, per quanto possa essere stressante lavorare per tante ore, ogni minimo obiettivo raggiunto diventa una grandissima gratificazione.
  8. Un hobby: adoro cucinare, ma più tardi mi sveglio e meno tempo ho per farlo come si deve. Quando mi sveglio presto la mattina so che ho davanti a me una marea di tempo per fare tutto ciò che voglio, e se durante la giornata dovessi sentirmi triste, potrei ritagliarmi un po’ di tempo per preparare un dolce o un sugo un po’ più particolare: già questo basta a far diventare bella la mia giornata.
  9. I barboni, gli extracomunitari, i commercianti gentili: adoro conoscere la gente. Può sembrare che definendo gli “extracomunitari” una categoria li voglia ghettizzare, ma non saprei come altro definire tutti i vari pakistani, marocchini, bulgari e ogni tipo di razza che senza alcun interesse ti sorride in giro per la strada, o ti chiama “bela principesa” e magari si sposta per farti spazio sul marciapiede. Ma adoro anche i cassieri che ti rivolgono una parola gentile o i barboni che pacificamente elemosinano sui marciapiedi. È vero, non stanno lavorando. Ma i 10 centesimi che dono loro di certo non mi impediranno di arrivare alla fine del mese!

10. La musica di De André: per esteso, potrebbe essere la musica di qualsiasi cantante, purché sia il proprio preferito. Faber per me è maestro e ispirazione, ma soprattutto un grande amico. Sentire la sua musica mi rilassa, mi diverte, mi fa riflettere e a volte cura la malinconia. Poterlo sentire e interpretarlo in un modo diverso ancora una volta, per dare un nuovo senso alle parole che ascolto ogni giorno, è un buon motivo per alzarmi.

11. Le risate: dubito che ci siano persone nella vita che non ridono mai. Magari si nascondono, magari lo fanno di malavoglia, magari si sforzano, ma ridiamo tutti, anche nelle situazioni più disastrose e degradanti. Una giornata in più, da vivere a contatto col resto del mondo, mi assicura perlomeno un sorriso nel giro di 24 ore. E una risata val bene una levataccia.

12. Il premio di fine giornata: ogni sera, specialmente se durante il giorno ho combinato qualcosa di buono, mi auto-premio con qualcosa di gradito. Generalmente il mio premio consiste nell’infilarmi sotto le coperte conciata come la nonna di Cappuccetto Rosso, con gli occhiali inforcati, due cuscini dietro le spalle e il computer sulle gambe. Guardo una puntata di qualche telefilm, per così dire, non molto impegnato, e poi, per addormentarmi col sorriso, ascolto un intervento della Littizzetto a ‘Che tempo che fa’ mentre gioco a qualche giochino stupido su Internet. Dolci nanne assicurate!

13. I colleghi/gli amici: a meno che non rimanga chiusa in casa tutto il giorno, durante la settimana quando sono a lezione condivido la buona e la cattiva sorte con altri amici, costretti anche loro a sentire le lezioni più noiose. Tra una battuta, un commento e una rima idiota le mattinate passano mille volte più velocemente!

14. Le figuracce: no, non sono diventata pazza né masochista. Anzi, sono sempre la solita permalosa insicura e piena di difetti, ma comincio a rivalutare tutti i disastri che combino quotidianamente in giro per la città, suscitando ogni volta le risate dei passanti. Lì per lì magari mi vergogno, ma poi mi diverte mandare un messaggio agli amici per raccontare loro quello che ho combinato, mi piace già il solo fatto di progettare il modo in cui lo racconterò, mi piace ironizzare sui miei disastri, sdrammatizzare e immaginare le loro risate a 1000 km di distanza. Così non mi sento mai una perdente, al contrario mi riempio di orgoglio per averli fatti ridere!

15. I messaggi: che siano via Facebook, via Twitter o semplici e classici SMS, a me i messaggi piacciono. Non sono una fan dei sentimenti “surrogati”, non credo che l’affetto si dimostri via internet e non mi illudo che ogni ‘mi piace’ ricevuto su Facebook corrisponda ad un apprezzamento nella vita reale. Detto ciò, quando la mattina mi sveglio e trovo un SMS che mi augura il buongiorno la cosa non può che farmi piacere. Suppongo che se la persona che me l’ha mandato, tra un centinaio di numeri in rubrica, abbia scelto di scrivere proprio a me, ha avuto un pensiero carino nei miei confronti. Poco importa se tra un anno litigheremo e non ci parleremo più per 9 lunghi mesi: un pensiero dolce ed affettuoso è sempre gradito, meglio ancora se spontaneo!

Per consegnare alla morte una goccia di splendore

Per consegnare alla morte una goccia di splendore

Vorrei tanto essere migliore, o anche solo essere felice di ciò che sono, perché in fondo magari sono una persona meravigliosa, ma non mi piaccio per niente. Io questa goccia di splendore vorrei davvero consegnarla, è che non so da dove dovrò stillarla. Guardo con fiducia al futuro senza rendermi conto che il futuro arriva tra due minuti, e che mi sono ritrovata ai vent’anni da un giorno all’altro, e se guardo appena un pelino indietro sto ancora flottando serena e tranquilla nel pancione della mamma. E allora devo sbrigarmi, perché magari domani un bel TIR, uno vero, mi investe sul serio, e non d’amore. Allora come ci andrò dal Creatore? Giustificandomi dell’anticipo e abbozzando qualche scusa perché non ho fatto in tempo a finire i compiti? Decisamente non posso presentarmi ai piani alti a mani vuote.

Vorrei vivere ogni giorno nella certezza che ho compiuto tutto ciò che era mio dovere, ma rarissimamente è così, e non so più come rimediare. Qualcuno dovrebbe estirpare la mia pigrizia come si fa con le erbacce.
Lo so, dovrei farlo io. E allora che qualcuno mi dia un punto di partenza.

Linate

Linate

 

Piedi che vanno veloci, rotelle delle valigie che scricchiolano tra gli interstizi delle mattonelle (ma non potevano farci caso i costruttori? È un aeroporto!) e passano, passano e passano. Questa fiumana tutta uguale di persone sempre diverse. Mi chiedo come diavolo facciano le altre a camminare con i tacchi in aeroporto. Solo io sembro una barbona ogni volta che devo prendere l’aereo? Bè, dai, almeno oggi sono più carina.

Vestitini, ballerine, borse firmate. Perché tutte le donne di questo aeroporto sono magrissime e hanno gambe anoressiche tranne me? Giacche, cravatte, Rolex al polso, manco andassero al gran galà. Una famiglia inglese con 3, no 4 bambini bellissimi. Sono arrivati col papà, adesso salutano la mamma. La mamma dà un bacio appassionato al papà. Chissà perché ho l’impressione che non sia la mamma vera ma la compagna del papà. No, è la mamma, altrimenti sai che tristezza.

Io sono l’unica cretina che batte i tasti del pc, tutto intorno a me è vita.

Aeroporto: ritrovarsi. Baci, abbracci, nervosismo, litigi, carezze, persone che saltano in braccio ad altre persone che da stasera avranno l’ernia del disco. Chi aspetta l’amico, chi la mamma, chi il figlio. Io pure aspetto un’amica, ma nel caso mio è diverso: sono arrivata prima io e non c’era nessuno ad accogliermi. Meglio farle un cartello, così si sente proprio a casa.

“Sunhil? Ma dove sei finito? Credo che tu abbia sbagliato strada. Prova a passare da là, da qua, da destra, da sinistra.” Benissimo. Anche la tizia accanto a me aspetta qualcuno. Eppure sembra un relitto dimenticato da Dio.

“Sunhil!”. Un indiano in trench e occhialetto rettangolare si è materializzato davanti alle porte automatiche. Sorride, di un sorriso euforico, innamorato. Avanza davanti a me, la tipa lo avviluppa, si baciano, io mi sento l’Isola della Sfiga. “Quattro… mesi… senza… vederti… mmm… mmm” e si baciano, e fanno questo rumore di lingue innamorate che se potessi mi scaverei la fossa sotto i piedi e ci sparirei dentro senza troppi complimenti.

Tra quanto arriva la Fra? Un’ora, ancora un’ora. Qua dice che il suo aereo è atterrato. È atterrato? Un par de ciufoli! Sembro una demente con questo cartello tutto colorato in mano.

E poi finalmente arriva. Il cibo del Mac credo che sia più buono quando qualcuno mangia insieme a te. Perfino questo tugurio di aeroporto ha le sue attrattive in fondo. C’è Intimissimi, e quanto è bello quel vestito blu lo voglio, ma forse avrei bisogno di quelle calze tutte colorate di Yamamay, i gioielli Guess secondo me sono troppo grossolani, tu che ne pensi?

Signora, per quale motivo mi guardi male? Ma fammi, passare, deficiente, che stai camminando col passo di una lumaca paralitica.

E poi abbracci che anche se li guardi non ti fanno più sentire sola, facce grigie che non spaventano più e guarda quel tizio che brutto, l’ascensore non arriva, quella coppia si bacia e noi siamo due sfigate senza il ragazzo, ma in due fa ridere chissà perché. Il pullman è di là, dove usciamo? Da qua? No, da qua? Elisa, aspetta due secondi, usciamo da qua.

Dove lo metto il mio bagaglio? Io di qua, tu di là, il tizio ci aiuta, saliamo a bordo del pullman e Annina è già là, che ci fate qua? Ti ho mandato un messaggio ore fa, perché non hai risposto? Sediamoci dietro così siamo tutte vicine. Ciao Milano. Ciao.