Neanche a dirlo, anche questa volta il mio viaggio parte male: il treno è partito con dieci minuti di ritardo, nella più rosea delle ipotesi ho cinque minuti di tempo per poter scendere alla stazione di Milano, controllare sul tabellone dov’è il mio binario, sbagliare direzione come al solito e poi vedere le porte del treno che mi si chiuderanno sul muso.
Lui mi aiuta a portare la valigia sul treno, con l’occasione mi si siede davanti.
Ha una camicia bianca a maniche corte, i primi bottoncini aperti a mostrare i peli del petto, già un po’ ingrigiti dal tempo.
Una collana con un ciondolo a forma di zanna stringe a fatica il collo grassoccio.
Gli occhi, piccoli e porcini, sono l’unico dettaglio che colpisce: celesti come il cielo, ma nonostante questo brillano di una luce inquietante.
La pelata è lucida di sudore.
Parla con un forte accento del Sud.
Prova a lanciarmi una battutina per attaccare bottone, senza riuscirci. Mi concentro sulla musica, spingo le cuffiette ben dentro le orecchie come a suggerirgli che è con loro che voglio passare il resto del mio viaggio.
Purtroppo squilla il cellulare. Parlotto con la zia, la ringrazio per gli auguri e poi chiudo.
Mi chiede quanti anni compia, non è il mio compleanno, è l’onomastico, qual è il nome di questa bella fanciulla? Glielo dico e mi porge una mano grassoccia e stringendo la mia mi fa gli auguri. Guardo il suo anulare e noto una fede d’oro e una d’argento.
Papà, il treno è in ritardo, non riuscirò a prendere la coincidenza. Controlli tu quando posso prendere il prossimo treno? Va bene, ci sentiamo dopo.
Perché non vado a mangiare una pizza con lui e poi mi porta in stazione e parto domattina? No, grazie, non voglio partire domattina. Parlo al telefono con papà, anche lui parla al telefono con qualcuno ma nel frattempo cerca di parlare anche con me, mi mette una mano sulla coscia e d’istinto mi muovo, per evitare ogni contatto fisico.
Davvero, perché non resto in città con lui? Possiamo partire domani. No, grazie.
Dice che sembro una bambolina, dovrebbe essere un complimento, e allora perché mi ha fatto rabbrividire?
Siamo arrivati alla stazione grazie al Cielo e sono al gabbiotto con due signori gentilissimi. Discutiamo per capire quale soluzione sia migliore, se prendo il treno tra venti minuti ci sarà un cambio, ma altrimenti dovrei prendere quello di domani mattina e… compare lui, alle mie spalle.
Chiede dove può comprare il biglietto, mentre alle nostre spalle campeggia un’enorme e lucente macchinetta dei biglietti.
Forse per un sesto senso i due signori lo liquidano e lo invitano ad allontanarsi mentre parlano con me.
Scappo a prendere il primo treno disponibile. Devo scendere a Piacenza, ci sono pochi posti, poggio il mio valigione e mi siedo con tre signori. Uno è sudamericano, come minimo ha settant’anni.
Questo ferma a Parma, signorina? Sì, certo, è il capolinea. Cos’è il capolinea? Provo a spiegarglielo, mentre un’affannata e grassoccia signora ucraina sale sul treno. Questo va a Piacenza? Certo signora, io scendo lì.
Devono avermi scambiata per il centro informazioni, mi subissano di domande. Mi armo di pazienza e rispondo a tutte quelle a cui posso rispondere. Adoro questa educazione, questa estrema umiltà e cordialità di altri tempi. Sono molto più grandi di me, ma continuano a rivolgersi con un ossequioso “lei”, e io ricambio, ricambio con molta più spontaneità di quella che uso nel dare del lei a quel tamarro di prima, che non era tamarro per il petto villoso ma per quell’animo torbido e inquietante.
Siamo a cinque minuti da Piacenza, arriva un isterico controllore sulla quarantina. Si scaglia contro ritegno contro la povera signora ucraina, le dice che non ha obliterato il biglietto e che per questo dovrebbe pagare la multa. Lei prova a spiegare, ma lui continua a urlarle contro.
So che non dovrei, ma mi intrometto. Le macchine obliteratrici erano tutte spente, gli spiego, la signora rischiava di perdere il treno, ce l’ha fatta per un pelo.
Ed io chi sono, l’avvocato delle cause perse?
E tu chi sei, il rappresentante ufficiale degli imbecilli in divisa? Questo però lo tengo per me.
Urla anche contro di me, lo stronzo. Dice che ho stampato male il biglietto. Come si fa a stamparlo bene? Gli chiedo, con la faccia di tolla. Sbraita il triplo.
Il treno finalmente ferma a Piacenza. Il controllore scende, una signora gli si avvicina per chiedergli dove si prende il treno per Lecce. Non lo vede, signora ritardata, che c’è il cartellone luminoso?
Ok, se questo non dovessero licenziarlo entro questo mese che il karma possa almeno infliggergli una cacarella sempiterna.
Il cartellone dice che il mio treno, che poi è lo stesso della signora, parte dal binario più lontano da quello dove siamo al momento: non ci resta che portare i nostri ventordici bagagli ciascuno giù e poi su lungo le scale (luride) della stazione. Una signora rachitica e iperattiva mi chiede di aiutarla con le sue valigie, come se io stessi trasportando un sacchettino di piume. La aiuto.
Al binario incontro di nuovo la vecchia signora ucraina. In un italiano parecchio stentato, mi chiede altre informazioni. Cerco di aiutarla per quanto mi è possibile, questa simpatica signora che ha capito che non ho potuto cenare e mi riempie le mani di cioccolatini del suo paese. È buona la cioccolata ucraina, davvero, devo provarla. Lei è appena tornata da là, per stare un po’ con sua figlia e con i suoi nipotini, perché è nonna, e i soldi che guadagna qui facendo da badante li manda a loro. Prenderemo lo stesso treno, solo che lei si fermerà a Bologna.
Il maniaco sbuca alle mie spalle: ci ritroviamo qui, che fortuna! (Oh sì, certo, che culo. Te possino…!). No, mi dispiace, non posso aiutarla a fare il biglietto. No, non posso muovermi da qui.
Il treno arriva. Come mi è stato detto di fare, cerco il controllore e gli spiego la mia situazione: il biglietto è valido ma non ho il posto prenotato, la colpa è vostra, che devo fare? Ah, semplice, devo solo sedermi da qualche parte, aspettare che il legittimo proprietario rivendichi quel posto e spostarmi come una vagabonda per tutta la notte. Quando non troverò un posto libero, potrò sempre aprire una seggiolina nel corridoio.
MA IO VI ODIO.
Occupo un posto ma, come previsto, il legittimo proprietario mi manda via con malagrazia. Sconfortata vado in corridoio e… psss… psss… signorina, qua c’è un posto: è la signora ucraina, ha preso il posto anche per me.
Siamo sedute lì, io, lei, un tizio dormiente e un ragazzo tunisino. La signora mi offre ancora dei cioccolatini, insiste, e io accetto. Mi dà anche del pane integrale, mi dice di provarlo con la cioccolata, che è squisito. Lo provo e le do ragione: delizioso.
Il ragazzo tunisino ci augura buon appetito. Gli rispondiamo con un sorriso. E parliamo anche con lui.
E loro mi raccontano tante cose, lui mi dice che non vede sua madre da anni, che ha tanti fratelli e dei nipoti. Mi dice che ha ventotto anni, io quanti ne ho? Quasi ventuno, e non mi sembra il caso di mettere su famiglia? Forse devi pensarci prima tu, ribatto. E sorride. E quando gli dico che sono stata in Tunisia da bambina non si scandalizza, non lo turba affatto che io abbia visitato da turista la sua nazione, quel Paese che lui ama ma da cui è stato costretto a scappare. Mi chiede anzi se mi sia piaciuta la sua terra, si commuove quando gli dico che i passanti chiamavano “Fatima” me e mia sorella per farci un complimento. Si chiama Amin, e sa parlare l’italiano, il francese e il tunisino. E gli piace tanto il mio sorriso.
La signora è vedova, ha perso il marito mentre già lavorava qua. Prima lavorava a Napoli, mi dice, ma lo stipendio era troppo basso. In Ucraina la vita è dura, gli stipendi sono la metà di quelli italiani ma il costo della vita è lo stesso. Sua figlia e suo genero tirano la cinghia per far crescere due bambini piccoli.
E io che faccio? Mi chiedono. Studio? E come mai non lavoro? Mi aiutano i miei? Che lavoro fanno? Rispondo, quasi vergognandomi della mia condizione di privilegiata. Sì, studio, qualche volta do ripetizioni ma non è un vero lavoro. L’affitto lo paga papà, i miei sono liberi professionisti. E sì, la mia casa ha un giardino. E mi faccio sempre più piccola mentre lo dico, perché tutte queste fortune che io non riesco ad apprezzare giorno per giorno per loro sono una miniera d’oro.
Eppure, lungi dall’essere invidiosi di ciò che mi è toccato per colpa della sorte cieca e bastarda, loro sono curiosi di sapere della mia vita, sorridono, sono felici per me.
Vogliono vedere le foto dei miei, di mia sorella, della mia casa. Per loro è tutto bello, noi siamo bellissimi, la mia casa è bellissima, i nostri sorrisi sono bellissimi. Quanto è giovane mia mamma! Quanti anni ha? Viene fuori che ha la stessa età della signora, ma lei ne dimostra almeno venti di più. Sono vent’anni di fatica, di vesciche sotto le mani, di trattori troppo pesanti per essere guidati da una donna, e vent’anni di rispetto, di umiltà, di sapersi arrangiare.
Ormai mi considerano sotto la loro ala, devono scendere a Bologna ma sono preoccupati per il mio viaggio solitario fino a Lecce. Lei mi saluta con calore, lui vuole il mio numero, io gli do il mio contatto di Facebook. Mi fido di lui, mi fido davvero, ma è pur sempre uno sconosciuto incontrato sul treno. Vuole che mi stenda lungo i sedili, mi copre alla bell’e meglio, chiude le porte scorrevoli e le tendine perché nessuno possa spiarmi. Rischia di perdere la fermata, gli faccio presente. Devo farmi sentire, mi dice senza smettere di sorridere.
E poi va via mandandomi un bacino, e io ho dimenticato il maniaco, i controllori e i ritardi e tutti i miei problemi da viziata, e sono pronta ad affrontare la nottata tragicomica che mi si para davanti con una prospettiva totalmente diversa.